In democrazia il risentimento diventa qualità e ricerca della virtù solo se essa vi è un’integrazione istituzionale politica economica, patrocinata dall’equità e dal rispetto della dignità per la persona e dal valore di credere nella giustizia, vera forza urtata e sospinta dal senso di costrizione. Virtù culturali che sono frutto antico contaminato tra lo spirito greco, della sacra bibbia e la giurisprudenza di Cicerone prima e dell’illuminismo poi che bisognerebbe salvaguardare.
Spesse volte, però, l’uomo non riesce a pensare che occorra circondarsi del giusto valore della virtù. Esiodo nei suoi eroi omerici esaltava il valore della morale, della gratitudine e della gioia. Il suo contrario genera il concetto negativo dell’ignobile, del volgare o della pallida poltrona, immagine vuota, molto ricorrente nel nostro vissuto contemporaneo.
Il fanatismo della globalizzazione ha vanificato i valori della fiducia, del sentimento e della prodigalità, arrogandosi il diritto del benessere economico come potenza del bisogno. Il terrore e il nulla sono serpeggiati nel tempo perfino nelle nostre case.
Il suo divenire si è mutato, oggi, in protezionismo. Il presidente Emmanuel Macron, nei giorni scorsi per proteggersi dalle acquisizioni delle industrie cinesi, ha dichiarato che “siamo di fronte al disordine della globalizzazione e alle sue conseguenze”. Lo scontro fra l’Italia e la Francia di questi giorni, non è un episodio casuale ma indica la ritirata della globalizzazione e la ricerca del protezionismo.
In un’Italia delusa, frustrata e schiacciata da mancanza di opportunità lavorative e precarietà, il giovane è spesso costretto a pesare sulle spalle dei genitori anziani. Secondo la commissione europea col 37,8% di disoccupati, l’Italia è dietro la Spagna e la Grecia mentre, ogni anno, se ne vanno all’estero 250 mila giovani, per la maggior parte diplomati o laureati e secondo Idos e Confronti, in Dossier statistico Immigrazione 2017, i dati sono cosi impietosi che riportano il nostro paese ai tempi del dopo guerra, quando erano poco meno di 300 mila gli italiani in uscita.
Abbiamo il Paese Italia senescente. Il calo demografico e il riempimento del vuoto da parte dell’immigrazione dovrebbero porre alla politica almeno interventi immediati aprendo prospettive innovative e non adagiamenti.
I giovani, senza avere un ruolo riconosciuto nel lavoro, non possono formarsi una famiglia, mentre le culle della natività anche nel Sud rimangono vuote e le pensioni future saranno un’utopia per loro.
L’articolo 1 della Costituzione recita che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, la quale “riconosce a tutti i cittadini, il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. La finalità, invece, è nel rispetto del dovere per il cittadino di svolgere un’attività o una funzione che concorra “al progresso materiale e spirituale della società”.
La politica, purtroppo, ha illuso i giovani ignorandoli e mettendo in atto scelte sbagliate. Sono visibili le illusioni dal Jobs Act all’abolizione della tassa sulla casa come le mancate attuative di programmi innovativi rispetto alle fallimentari ricette economiche e sociali degli ultimi governi.
Eppure facendo un’attenta analisi epistemologica sui Fondi strutturali e sugli investimenti europei sia in chiusura della passata programmazione sia come possibile apertura di “una finestra sul futuro” post 2020 delle Politiche di Coesione, è possibile avere un momento di verifica e di apertura di credibili progetti per l’attuazione dei patti per lo sviluppo e non solo del Sud. Il riesame delle rivisitazioni programmate ci indica che, grazie al massiccio impiego delle risorse comunitarie, nel 2015 vi è stata sì nel Mezzogiorno una crescita del Pil del più 1,2%, ma essa è stata indicativa solo sulla quantità di spesa e non sulla qualità degli interventi. La richiesta, sebbene essa sia positiva, è su un’integrazione programmata d’intenti, coordinati, lungimiranti e condivisi. L’entità delle risorse ci deve vincolare necessariamente a perseguire obiettivi ambiziosi per migliorare la qualità di vita, specie in aree più fragili, in percorsi più “virtuosi” nella realizzazione delle opere e nel miglioramento dei servizi alla persona attraverso l’attuazione di progetti strategici sovra regionali. Il “Patto per lo Sviluppo del Sud”- (40 miliardi di euro)- deve avere l’intento d’innalzare quantitativamente e qualitativamente la spesa a sostegno della crescita economica e dei livelli occupazionali. Il “bonus occupazione Sud”, finanziato con il PonSpao (530 milioni di euro per le assunzioni nel 2017) è una risposta contributiva a migliorare il mercato del lavoro, ma non esaustiva senza una riduzione del cuneo fiscale e contributivo e una crescita occupazionale degli adulti e dei giovani.
La fiducia è in un “cambio di passo”, che integri il coinvolgimento delle imprese nelle politiche attive e dei servizi per il lavoro. L’Italia non può rassegnarsi senza capire lo spirito culturale del tempo, che chiede la fine del partito del leader o quello personale per un percorso diverso che sia in sintonia con i bisogni del popolo almeno sulle priorità: salute, lavoro e previdenza.
Nel Sud oltre un terzo dei meridionali è a rischio di povertà relativa, mentre il 10% è in povertà assoluta. La spirale è nel minore benessere dovuto nei bassi salari e nella scarsa produttività e competitività. In Puglia è andata male l’agricoltura, i servizi sono rimasti stazionari, anche se le costruzioni sono cresciute poco e vi è stata una minima ripresa industriale, rispetto all’anno scorso.
Secondo la Uil pensionati di Brindisi superare la crisi è sostenere la crescita intervenendo sull’immediato, attraverso la capacità di spendere presto e bene le risorse esistenti, ma soprattutto attuando bene il previsto “Patto di sviluppo per il Sud”, bene e certo anche “per il futuro”. La fiducia è nel rafforzamento della capacità amministrativa in ambito locale, attraverso dotazioni e riqualificazioni delle professionalità e di politiche di coesionenecessarie. Il Decreto legge sulla crescita economica del Sud potrebbe essere solo una prestanza indicativa perché, in effetti, serve una gestione culturale integrativa, a cominciare dal Governo centrale, che acceleri la spesa e salvaguardi la qualità della stessa senza condizionare il negoziato sul futuro della coesione.
È necessario, quindi, dare cittadinanza al lavoro, attraverso un cambio di passo radicale della politica economica, tale da rovesciare l’impianto delle politiche neoliberali che hanno marginalizzato il ruolo della rappresentanza democratica, rimettendo al centro una strategia dello sviluppo che allarghi i diritti dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro, faccia crescere i salari e favorisca politiche competitive d’investimento e di sviluppo. Non è sufficiente dialogare sull’abbassamento dei costi e di flessibilità del lavoro se non si mette al centro la persona. La costituzione difende il ruolo del lavoratore anche nei suoi diritti, qualificandoli, eguagliandoli nelle differenze secondo il concetto dignitoso del rispetto di cittadino e di collettività. Come farà il giovane ad andare in pensione un domani? Quale sarà la previdenza del futuro, oppure il reddito di pensione sarà per loro un’utopia? Hanno, purtroppo, carriere precarie tali da non ricevere nemmeno la previdenza integrativa. È compito della politica creare le condizioni affinché un giovane di oggi, ma un pensionato di domani possa avere una pensione dignitosa, anche se ha perso i contributi negli anni di crisi.
L’anziano ha bisogno di politiche socio-sanitarie. Occorre sopperire alle case della salute insufficienti, alla mancanza di personale ospedaliero e alla qualità dei servizi ai disabili, agli anziani non autosufficienti e alle persone fragili. Questi sono nodi cruciali che tracciano lo scenario che il cittadino deve convivere ma, se mitigati, è possibile alleggerire il pronto soccorso in circostanze non emergenziali. A settembre dovrebbe riprendersi il confronto tra il Governo e il sindacato unitario su pensioni e lavoro. L’esigenza è nel separare la previdenza dall’assistenza perché solo così è dimostrabile che il peso del sistema pensionistico sia appena dell’11,9%, di sotto la media europea. Si richiede, infine, un diverso indice per la rivalutazione delle pensioni in essere per la mancata indicizzazione. Sull’insieme delle questioni affrontate serve quindi, una partecipazione d’impegno comune, di responsabilità e di fiducia, proiettata nel futuro, sempre pronta al suo ruolo attivo di programmazione integrata, tale da essere una fonte culturale che ci faccia credere in noi stessi e negli altri.
Il segretario responsabile
Tindaro Giunta