di un cambiamento climatico non ancora irreversibile, ma ormai palesemente e incontrovertibilmente critico, sono tornato nel mio Salento a trascorrere una parte delle vacanze, come faccio ininterrottamente da quando ne sono andato via; da qui ho seguito il dibattito alimentato dalla sapiente decisione del Parco Nazionale del Gargano di vietare l'attracco delle grandi navi da crociera alle Tremiti, come invece parrebbe desiderare il Sindaco di quelle isole, nonché dall'altrettanto ineccepibile provvedimento della Giunta Regionale del Lazio di inibire la captazione incontrollata dal lago di Bracciano, come invece avrebbe continuato a fare volentieri ACEA spa. Inoltre, abbiamo tutti seguito con trepidazione e ansia lo sviluppo e l'intensità dei numerosi roghi che hanno devastato porzioni sempre più estese del pregiato paesaggio di cui il paese dispone e abbiamo potuto rilevare che da qualche giorno va rimbalzando sui social la sconcertante notizia che l'Earth Overshoot Day del 2017 è caduto il 2 Agosto scorso. Secondo un modello di calcolo del Global Footprint Network, si tratta del giorno dell'anno in cui tutti gli abitanti della terra raggiungono un livello di consumi, in base alla loro impronta ecologica, esattamente pari alle risorse che la Terra è capace di riprodurre naturalmente; da quel giorno in poi, abbiamo bisogno di una ipotetica frazione supplementare di pianeta per produrre le risorse che ci sono necessarie. L'anno scorso fu l'8 Agosto e nel 2015, il 13; data l'impronta ecologica media di un abitante della Terra, quest'anno si stima che avremmo bisogno di una superficie produttiva pari a 1,7 volte quella attualmente disponibile. Più la data dell'overshoot day risale all'indietro lungo il calendario, più cresce questo valore: all'inizio del millennio fu a fine settembre e sarebbero stati necessari 1,37 pianeti per sopravvivere con le sole risorse prodotte. Dal 1970, data in cui il consumo di risorse pareggiò la biocapacità del pianeta, questo indice cresce e non ha mai invertito il suo trend positivo. Infine, da gennaio sappiamo che l'ONU dedica il 2017 al turismo sostenibile per lo sviluppo. Non al turismo sostenibile e basta. Ecco, c'è un filo rosso che lega questi dati, la situazione allarmante registrata in alcune aree del paese per la mancanza di acqua nei bacini naturali e per i numerosi roghi che hanno divorato migliaia di ettari di aree boscate - le stesse che contribuiscono alla biocapacità del solo pianeta di cui possiamo verosimilmente disporre - e infine il modello di sviluppo per cui ci vogliamo spendere. Da una parte, quello fondato sui riti omologanti dell'economia globalizzata (il turismo alla McDonalds, lo sviluppo mordi&fuggi); dall'altra, un modello centrato sulla valorizzazione del paesaggio inteso "come parte essenziale dell'ambiente di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità" (Convenzione europea del paesaggio, 2000). Il paesaggio è un giacimento ricco e prezioso di saperi e culture, urbane e rurali. Quei tanti saperi e quelle diverse culture oggi concorrono alla capacità da parte di una certa comunità territoriale di innovare, produrre e scambiare beni che solo in quel luogo del mondo potrebbero vedere la luce e che il paesaggio sempre racconta. In questa dimensione culturale e identitaria risiede il suo valore di bene comune, di capitale sociale, non solo naturale, come pensano in tanti. In tale prospettiva interpretativa, il paesaggio, come l'ambiente e il territorio, non possono più avere un ruolo strumentale, non possono più essere solo il prezioso specchio per le allodole del turismo internazionale di crociere affollate o per la cupidigia di azionisti - pubblici o privati non fa differenza - che, assetati di dividendi, sottopongono gli ecosistemi a pressioni insostenibili come fossero un asino o spremono come un limone il lago i cui acquedotti colabrodo, senza opportuni investimenti, presto saranno insufficienti perfino ad avvicinare l'acqua alla capitale, non solo a distribuirla ai suoi abitanti razionandone il consumo. Quanto costeranno i danni causati al sistema ecologico del lago di Bracciano allo stesso Comune di Roma Capitale, che oggi preferisce l'ingordigia di riprendersi qualche dividendo, quando dovrà integrare anche questa sua fonte come fu con l'acquedotto del Peschiera? E quanto costano alla collettività in termini di servizi ecosistemici mancati, di CO2 non assorbita, di dissesto idrogeologico non presidiato, di biodiversità dispersa, gli ettari di bosco andati in fumo? L'illusione novecentesca che le ricchezze territoriali siano elementi funzionali solo alla dimensione economica dei mercati globali, obbliga le comunità locali a rimanere ancorati ad una lettura dei paesaggi in termini di uso e di risorsa; al contrario, se non si considera anche il loro valore patrimoniale, anche come sola esistenza in vita, non si trovano neanche abbastanza motivazioni per averne cura. E se non se ne ha cura, nella migliore delle ipotesi il degrado sopraggiunge e sopravanza, nella peggiore diventa lecito dare deliberatamente fuoco ai boschi pur di alimentare disegni criminali più o meno noti oppure si ammette il collasso di un intero sistema lacuale pur di finanziare il debito di una capitale allo sbando. Perché c'è differenza tra un territorio inteso come oggetto dello sviluppo o come soggetto attivo, protagonista di un percorso cooperativo, non solo competitivo, in cui le forze imprenditive, non solo imprenditoriali, si spendano per una rigenerazione delle comunità insediate fondata non solo, non tanto e non più sulla sostenibilità, ma anche e soprattutto sulla autosostenibilità. È chiaro allora che per dare gambe ad un modello di tal fatta, il problema si estende agli strumenti e alla governance. Cosa fare per evitare che dal lago di Bracciano venga captata più acqua di quella che si deve per mantenere in equilibrio il sistema ecologico? Per mezzo di quali strumenti possiamo impedire che il degrado e l'incuria mandino in fumo ettari di bosco? Come facciamo a stabilire se è bene portare le grandi crociere alle Tremiti? Dobbiamo ripensare profondamente il progetto e il piano, perché gli strumenti ordinari della pianificazione non sono più sufficienti. Strumenti innovativi come i Contratti di Fiume, di lago, di costa, i parchi agricoli multifunzionali, gli ecomusei, i patti di filiera per chiudere localmente i cicli dell'acqua, dell'alimentazione, dell'energia, dei rifiuti, sembrano funzionare efficacemente dove finora sono stati sperimentati perché restituiscono alle comunità locali una capacità di autogovernare il proprio potenziale di resilienza che gli enti territoriali non sembrano avere. Mediante tali strumenti gli agricoltori che con il proprio fondo si affacciano sulle sponde del lago di Bracciano non sarebbero rimasti passivi spettatori di un disastro annunciato. Mediante tali strumenti, gli stessi Enti parco, che pure hanno tanti meriti nella tutela e conservazione del nostro inestimabile patrimonio naturale, sarebbero sollecitati ad assumere un ruolo più attivo di promozione e valorizzazione del capitale sociale che è rappresentato nel loro territorio, non solo ad accontentarsi di assicurare una "riserva" rispetto al capitale naturale. Mediante tali strumenti gli abitanti e gli operatori economici delle Tremiti sarebbero chiamati a verificare direttamente il bilancio tra i costi di un impatto enorme in termini di rifiuti, inquinamento, affollamento, danni alla biodiversità e i benefici di due-tremila turisti i quali, scesi su un molo che non ne contiene neanche 500, sosterebbero giusto il tempo di qualche selfie prima di tornare in nave a godere dei servizi all inclusive già pagati con il biglietto. Ecco la grande sfida che ha di fronte la politica, a tutti i livelli: elaborare visioni che abbiano il respiro delle future generazioni, non l'affanno delle prossime elezioni; proiettarsi fuori da sé e dalle proprie logiche autoreferenziali per mettere a sistema quel capitale sociale, che ovviamente deve essere prima di tutto identificato e riconosciuto; se le qualità di un luogo sono preziose, lo sono anzitutto e soprattutto per la comunità che abita quel luogo, la quale, proprio per mezzo di quei beni patrimoniali, lega l'innovazione possibile ai suoi sicuri valori simbolici, produttivi, identitari, così ripensandosi e accrescendo la consapevolezza di quella ricchezza. Dalla coscienza di classe alla Coscienza di luogo, sostengono alcuni autorevoli studiosi (Magnaghi, 2010). Questo deve fare la politica prima di tutto: favorire la costruzione di un'autentica coscienza di luogo. Sono sicuro che ciò sospingerebbe nuovamente verso la fine dell'anno anche il prossimo overshoot day. Ma attuare politiche pubbliche in favore di un territorio inteso come un eco-sistema sempre nuovo, esito di un processo evolutivo e culturale di lunga durata, temo però che faccia a pugni con le stringenti esigenze di leggi elettorali che si misurano in cicli solo quinquennali.
(*) Ingegnere edile, docente a contratto di Progetti di Rigenerazione Urbana presso la Sapienza - Università di Roma