Esso tiene conto della produzione di beni e servizi destinati al consumo da parte dell’acquirente finale o alle esportazioni ed è l’indicatore che rivela la ricchezza complessiva del Paese, più precisamente indica l’andamento annuale della produzione della ricchezza, che può crescere o decrescere rispetto agli anni precedenti.
Il PIL è molto importante per tutti i cittadini/contribuenti perché oltre ad indicare la ricchezza prodotta annualmente da un Paese, viene utilizzato in alcuni rapporti che regolano l’appartenenza dei singoli Stati membri all’Unione Europea e all’area dell’euro. In particolare ci si riferisce al Patto di Stabilità, secondo il quale gli Stati membri, tra cui l’Italia, non dovrebbero avere un deficit (entrate meno uscite) superiore al 3% del PIL e un debito pubblico (debito dello Stato nei confronti di soggetti economici nazionali o esteri) superiore al 60% del PIL.
Sebbene la speranza sia quella di una costante crescita, si nota che in Italia il PIL non sembra avere avuto questo andamento, ma al contrario un ritmo lento (dal 2000 fino al 2019 la crescita media annuale è stata dello 0,2%) e a tratti anche altalenante; come è accaduto soprattutto negli anni 2008-2009, quando la crisi finanziaria colpì anche l’Italia ed ebbe pesanti conseguenze nell’andamento del PIL. Alcuni elementi che giocano a sfavore della crescita sono una ripresa del mercato del lavoro troppo lenta e un indebolimento del potere di acquisto delle famiglie a causa dell’andamento dell’inflazione. Dovendosi necessariamente considerare i consumi, gli investimenti, la spesa pubblica e le esportazioni, per aumentare il PIL bisognerebbe aumentare queste grandezze, che sono legate l’una all’altra. La scelta più ovvia sembrerebbe (secondo l’insegnamento keinesiano) l’aumento della spesa pubblica (denaro utilizzato dallo Stato in beni o servizi pubblici finalizzati al soddisfacimento dei bisogni collettivi), ma un aumento della spesa pubblica, se non si dispone di attivi di bilancio, è possibile solo con l’indebitamento.
L’aumento degli investimenti richiede invece condizioni ben precise, come i bassi tassi di interesse e una fiscalità non punitiva, mentre l’aumento delle esportazioni necessita di condizioni di competitività rispetto alla concorrenza straniera che può essere di carattere qualitativo (superiorità del prodotto offerto) o quantitativo, cioè prezzo più basso rispetto a prodotti di pari qualità.
Nonostante nella zona euro l’Italia sia la terza nazione col PIL più alto, nella crescita invece occupa l’ultima posizione. Dietro, ovviamente, anche alla solida Germania che ultimamente stenta ad uscire dalla stagnazione, cioè una situazione economica caratterizzata dal persistere di modeste variazioni del prodotto interno lordo e che si distingue dalla recessione, nella quale per più periodi la produzione complessiva diminuisce. L’economia della zona euro nel 2019 è cresciuta ad un ritmo medio del 2,1%, ben 2 punti percentuali in più rispetto a quella dell’Italia, la cui crescita è soggetta ad alta incertezza e l’impatto dell’incertezza sulle condizioni di finanziamento del settore privato potrebbe portare a una recessione più prolungata.
Giovanni Vecchio
Classe VB indirizzo Informatico dell'Istituto Tecnico Economico "E. Ferdinando"