Il nemico è dentro di noi
“Che cosa è meglio: la legge e la salvezza o la caccia e la barbarie?”. Quale concreta risposta pensate che dia la società in questo particolare frangente storico alla disperata domanda di Ralph? Alla prima ondata pandemica la società ha risposto che “andrà tutto bene”, poi c’è stata la seconda ondata e la sicurezza ha iniziato a vacillare. Che farà la società umana di fronte alla non improbabile terza ondata pandemica? E che cosa accadrà se, come dicono gli scienziati, in un futuro prossimo dovremo fare sempre più i conti con altre pandemie e con i cambiamenti climatici sempre più evidenti e distruttivi?
Proviamo a rispondere con la lettura di un classico tra i più celebri della letteratura mondiale, Il Signore delle mosche (titolo orginale: Lord of the flies) dello scrittore ed insegnante inglese William Golding (1911-1993), premio Nobel per la letteratura nel 1983.
Il romanzo fu scritto nel 1952 ma pubblicato nel 1954. In Italia arrivò nel 1958 con la traduzione dall’inglese di Filippo Donini. Il titolo Il Signore delle mosche non fu scelto dall'autore, ma dal poeta T. S. Eliot che curò la prima edizione del romanzo.
Al lettore non deve sembrare improprio il salto dall’ombra del virus all’ombra delle mosche.
Il romanzo è noto a tanti anche per via degli adattamenti cinematografici, teatrali e musicali. Al romanzo si è ispirato, nel 1990, il regista Harry Hook per realizzare un film che, a sua volta, è un remake di un altro film girato da Peter Brook nel 1963. Nel 1995 il gruppo heavy metal degli Iron Maiden scrisse una canzone ispirata proprio al romanzo di Golding.
I protagonisti del romanzo sono dei fanciulli inglesi di buona famiglia dai sette ai dodici anni. Il gruppo, in seguito ad un incidente aereo, è costretto a vivere su di un’isola, senza l’aiuto degli adulti, morti nell’incidente. Devono cavarsela da soli e provvedere a tutto e se vogliono sopravvivere, devono organizzarsi al meglio; tanto per cominciare, segnalando la loro presenza ad eventuali soccorsi accendendo un fuoco e mantenendolo acceso. Insomma, questi adolescenti devono ricominciare tutto dal principio e ricostruire una società su di un atollo corallino sperduto nell’oceano. Hanno la possibilità di essere migliori degli adutli, dei loro genitori e dei loro insegnanti, impegnati a combattere una guerra nucleare.
È il mito del buon selvaggio di Rousseau, ma rovesciato; il filosofo francese è convinto che la società corrompa l’uomo, buono per sua stessa natura; la civiltà rende schiavi e malvagi gli esseri umani che, quindi, tanto più sono infelici quanto più perdono il contatto con la Natura, con il loro mitico stato primigenio.
Golding è del parere opposto: l’uomo è malvagio o propenso alla malvagità e al dominio del potere. La scelta dei fanciulli come protagonisti, tradizionalmente sinonimo di innocenza, è voluta dall’autore per rompere schemi ideologici e provocare la riflessione nel lettore. Lo fa conferendo ai personaggi, al luogo e ai rapporti interpersonali una dimensione universale, in modo tale che ogni personaggio ed ogni oggetto ed ogni azione sono simboli di un particolare atteggiamento umano, di un sentimento, di una paura o di un’attesa. Nel romanzo, quindi, ogni cosa ha un valore simbolico che afferisce ad una realtà superiore ed astratta. Ad esempio, la "laguna" ed il "castello", i due luoghi maggiormente emblematici dell’isola, hanno evidenti e profondi significati: libertà e democrazia la laguna (il paradiso perduto), paura e tirannia il castello (l’inferno creato dall’uomo).
Il Signore delle mosche è, quindi, un romanzo a tesi, una favola allegorica il cui scopo è la dimostrazione di alcune convinzioni del suo autore: l’innata malvagità umana, la paura e la superstizione quali strumenti di dominio.
Da una iniziale organizzazione democratica, grazie a Ralph, il gruppo di adolescenti, con a capo il malvagio Jack, regredisce ad uno stato primitivo e tribale; Jack e il suo gruppo di cacciatori si separano dal resto dei bambini e vanno a vivere dall’altra parte dell’isola, a Castle Rock, una montagna a picco sul mare. Pian piano quasi tutti i bambini sono costretti all’obbedienza e viene costruito un feticcio da venerare: una testa di maiale (offerta in dono alla bestia o, meglio, alla paura della bestia, dell’incubo e dell’invisibile) infilzata su di un palo e circondata da insetti (da qui il titolo); chi non è d’accordo, chi ancora conserva un briciolo di razionalità, è considerato dal gruppo di cacciatori un nemico e la paura fa nascere meccanismi di sopravvivenza che pian piano si trasformano in comportamenti bestiali. Due bambini sono addirittura uccisi (Simone e Piggy) e Ralph deve fuggire, inseguito da Jack che, sempre più invasato, dà fuoco alla foresta per stanarlo. Ralph corre verso la spiaggia, verso la “laguna”, l’unico posto ancora libero dal fuoco e, quando ormai sente la fine vicina, vede un ufficiale della Marina fermo davanti a lui che, visto il fumo, era sceso sull’isola per dare un’occhiata. Ralph è salvo ma piange la perdita di Simon e Piggy e la fine dell’innocenza di tutti i fanciulli.
Dirà Golding che “Gli uomini producono il male come le api producono il miele”, perché quando non ci sono freni sociali e morali, quando la legge è assente, gli uomini regrediscono e si aggregano in branco come animali, obbedendo alla legge del più forte che prevale sul più debole. Il Signore delle Mosche, perifrasi biblica di Belzebù, è la testa del maiale selvatico conficcata su di un palo ed è metafora evidente dell’oggettivizzazione del male, quasi malattia demoniaca che contagia l’uomo. Ma non c’è alcun demone esterno. È tutto dentro di noi.
C’è da chiedersi del perché, di fronte ad una situazione di emergenza e di pericolo, l’uomo, invece di fare fronte comune, arrivi allo scontro, gruppo umano contro gruppo umano. Qual è l’origine del male? Nel romanzo di Golding non c’è una soluzione, ci sono tante piste da seguire: la contrapposizione freudiana del mito e del tabù, la fase di crescita propria dell’adolescente o il rapporto tra i sessi (nel romanzo non c’è una ragazza), la condanna da parte dell’autore di tutte le ideologie del Novecento, colpevoli di aver distrutto la democrazia introducendo un autoritarismo irrazionale e, non certo per ultima, l’allegoria della società umana che, senza i vincoli della civiltà, ritorna immediatamente alla barbarie.
Sono tutte riflessioni da svilluppare, a patto di considerarle in blocco perché solo così riusciamo a capire perché il Novecento ha guardato più al sistema e molto meno all’uomo.
Due decenni sono trascorsi dal “secolo delle guerre” e nulla pare mutato.
L’uomo è malato, lo è anche senza virus. La sua avidità autoreferenziale è pari alla sua innata crudeltà. Esistono certamente delle eccezioni, ma sono sempre di meno, mentre le ipocrite convenzioni borghesi sono ormai una foglia di fico, un tentativo di coprire il fallimento di un’intera civiltà. Quindi, a ben vedere, il romanzo nasconde un fine ultimo: mostrare il male dell’uomo attraverso la sua componente più innocente o ritenuta tale: gli adolescenti. Anche sull’isola, dopo un primo momento idilliaco nella laguna (si veda il ruolo svolto dalla conchiglia), imperano terrore e violenza, mentre il resto del mondo è devastato dalla guerra. L’isola che brucia è l’emblema dell’incapacità umana di costruire qualcosa di sano e giusto.
Golding, quindi non propone ricette, nessuna soluzione al male; di sicuro non è l’isola ad instillare nei fanciulli la violenza, così come non è un virus il responsabile dei nostri comportamenti peggiori. Per lo scrittore inglese ci sono solo sprazzi di salvezza, brevi momenti in attesa di qualcosa che possa liberare l’uomo dalla sua disperata condizione. Nel romanzo è l’attesa di una nave di soccorso, sono le attenzioni e le cure di Simone verso bambini più piccoli; nella recente pandemia di coronavirus è l’attesa di un vaccino, sola àncora di salvezza, e sono le cure e le attenzioni di chi ancóra resta umano nonostante tutto, nonostante che i comportamenti umani sono, in massima parte, sempre meno virtuosi e sempre più interessati ed economici. Non è questione di pessimismo, perché la questione in gioco è profonda ed investe le nostre radici: la bestia è in noi e non fuori. Constato che il nemico è dentro di noi, alla domanda iniziale (Che cosa è meglio: la legge e la salvezza o la caccia e la barbarie?) la risposta non può che essere: la scelta è solo nostra.
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