Una donna, una madre, lotta per sopravvivere ad un tentato femminicidio In evidenza
Una giovane donna, una madre di Latiano, da martedì 25 giugno lotta tra la vita e la morte nel reparto di rianimazione dell’ospedale Perrino di Brindisi per sopravvivere al tentato femminicidio per il quale è stato arrestato suo marito, istruttore di arti marziali.
Una violenza estrema che si è consumata dentro e fuori casa, alla presenza del figlio minore. Ci auguriamo che la donna sopravviva e superi le gravi conseguenze sul corpo, consapevoli che queste sono una parte del trauma vissuto.
Infatti una donna traumatizzata da violenze di questa gravità ha bisogno di un percorso terapeutico per rielaborare le conseguenze psicologiche e fisiche dell’aggressione, ricevere protezione, empatia, senza la pretesa di stabilire durata ed esiti.
Triste e dolorosa è anche la condizione del figlio minore, che è stato presente al tragico evento, verosimilmente terrorizzato e disperato per quanto stava accadendo alla madre per mano proprio del padre e non di uno sconosciuto piombato in casa dal nulla. Anche lui ha bisogno di aiuto per superare paura, dolore, rabbia, senso di impotenza e altri sentimenti laceranti.
L’indagato è accusato di maltrattamenti familiari e lesioni personali. La stampa riferisce dettagli inquietanti quali i tentativi da parte dell’uomo di evitare il controllo domiciliare dei carabinieri e il fatto che la donna sia stata trovata nel giardino di casa sotto due lenzuola con ecchimosi e fratture su tutto il corpo, in fin di vita. Un tentato femminicidio evitato per poco.
Non sappiamo se il figlio minore sia considerato vittima di violenza assistita e se siano stati adottati provvedimenti per la sua messa in protezione durante i due giorni precedenti l’arresto del padre.
Dalla nostra esperienza ultra decennale di centro antiviolenza vogliamo fare alcune osservazioni necessarie.
Chi continua a parlare della violenza maschile sulle donne nei rapporti di intimità e della violenza assistita dai/dalle minori come fenomeno d’emergenza, compie un’operazione di sottovalutazione e normalizzazione della stessa, non dà la dovuta attenzione alle cause strutturali che la determinano e soprattutto alle strategie per prevenirla e contrastarla in tutte le sue manifestazioni. Inoltre, è riconosciuto che la violenza intra familiare non si manifesta con un unico episodio, ma presenta un andamento ciclico di crescente intensità che può raggiungere alti livelli di pericolosità.
A ciò si aggiunga che troppo spesso le donne vengono considerate responsabili e/o complici della violenza che subiscono dentro e fuori la famiglia, senza considerare le enormi difficoltà a cui vanno incontro quando cercano di proteggersi e di far cessare il comportamento violento.
I centri antiviolenza raccolgono in maniera anonima dati sul fenomeno che inviano a diverse istituzioni, per esempio gli Ambiti Sociali Territoriali, gli Assessorati regionali competenti e all’ISTAT. Pertanto, le istituzioni sono in possesso di dati quantitativi e qualitativi sulla violenza alle donne che dovrebbero orientare le politiche di prevenzione e contrasto.
Le indagini ISTAT, della FRA (Agenzia Europea per i Diritti fondamentali) a livello europeo e quelle dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) confermano il carattere strutturale della violenza di genere, con oltre un terzo delle donne in Italia e nel mondo che subisce una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Prevale la violenza nelle relazioni di intimità che si manifesta in forme particolarmente crudeli.
Bisogna fermare e sradicare la violenza sulle donne; non possiamo più ascoltare parole vuote e di circostanza. Le istituzioni devono smetterla con azioni spot e da marketing di facciata. Chiediamo ancora una volta alle istituzioni di misurarsi con politiche integrate con obiettivi chiari sul piano della prevenzione e del contrasto della violenza maschile e di genere.
Ricordiamo che i centri antiviolenza sono servizi specialistici che si reggono in buona parte sul lavoro volontario delle operatrici, che non ricevono, assieme alle case rifugio, sufficienti finanziamenti pubblici per assicurare la continuità di funzionamento e la cui operatività è rallentata da un pesante sistema burocratico.
Inoltre, i pur esigui finanziamenti vengono erogati in ritardo o, ancora peggio, i programmi antiviolenza, che servono a finanziare gli interventi territoriali, in qualche caso non vengono erogati affatto. Tutto a danno delle donne, che invece avrebbero necessità di disporre di interventi immediati.
Le donne sentono parlare di reddito di libertà, reddito di dignità, micro credito di libertà, ma queste misure sono raramente accessibili e disponibili al momento del bisogno. Occorre fare i conti con la rabbia e la frustrazione delle donne che vengono sollecitate a denunciare e a sottrarsi alla violenza, per poi, in molti casi, essere vittimizzate e giudicate e dover affrontare un assurdo calvario di intensità pari alla violenza subita.
Vogliamo essere vive e libere!
La Presidente
Rosa Cecilia Caprera
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