I topi e gli uomini di Steinbeck
“Of Mice and Men” è un romanzo di formazione scritto da John Steinbeck (1902-1968; premio Nobel per la letteratura nel 1962), uno dei maggiori esponenti del gruppo di autori della cosiddetta “Generazione perduta”.
Il romanzo fu pubblicato nel 1937 e il titolo è da riferire ad un verso di una poesia dello scozzese Robert Burns (The best-laid schemes of mice and men, I migliori progetti di topi e uomini; v. 39 della poesia “A un topo, buttandogli all’aria il nido con l’aratro”) che si riferisce ai progetti fallimentari degli uomini e dei topi, talmente fallimentari che arrecano dolore invece di gioia. È questo il mistero dell’esistenza, al centro anche del rapporto di amicizia tra i due protagonisti, George e Lennie, del romanzo di Steinbeck. Il sogno di libertà nutrito dai due amici che, inevitabilmente, si trasforma in tragedia.
Quando Cesare Pavese tradusse il romanzo invertì l’ordine dei sostantivi nel titolo e Of mice and men divenne “Uomini e topi” ma fece scomparire anche il complemento di argomento of (che nel verso di Burns è un complemento di specificazione). Lasciò due nomi e una congiunzione per un destino comune.
La storia, ispirata ad un fatto realmente accaduto in un ranch californiano un decennio prima, è ambientata negli anni Trenta del secolo scorso e ruota attorno a due protagonisti, George Milton e Lennie Small, due braccianti in cerca di un lavoro temporaneo in una fattoria della Salinas Valley, a sud di Soledad, in California. George è piccolo ma scaltro e furbo, mentre Lennie è grande e forte, ma con un cervello fermo all’infanzia. Hanno un sogno che ad un certo punto del romanzo sembra quasi concretizzarsi: mettere da parte denaro a sufficienza per comprarsi un ranch tutto loro, dove allevare, liberi e senza padroni, mucche e polli e coltivare un orto; avranno anche una conigliera perché Lennie ama accarezzare i conigli e altri animaletti dal pelo soffici, come, appunto, i topi. Solo che Lennie finiva sempre per ucciderli mentre li accarezzava con le sue pesanti mani. Un miscuglio micidiale: disabilità mentale e forza straordinaria, che metterà nei guai i due amici e decreterà la fine della loro legame di amicizia. Non racconterò altro. Il romanzo è breve e va letto. Si può anche decidere di vedere una delle due trasposizioni cinematografiche (la prima del 1939 e la seconda del 1992) del romanzo; consiglio la bellissima riduzione cinematografica del 1992 per la regia di Gary Sinise che interpreta George Milton, mentre il gigante bambino è magistralmente interpretato dal John Malkovich. La prima versione teatrale è del 1937, considerato che il romanzo si presta benissimo, per la ricchezza dei dialoghi, ad essere rappresentato in teatro.
Mi preme, comunque, sottolineare alcuni temi che emergono da questo bellissimo romanzo: la condizione dei lavoratori e degli emigranti negli USA degli anni Trenta; l’emarginazione sociale ed umana degli ultimi, donne e neri; l’ossessione del guadagno per realizzare il sogno americano che, in definitiva, altro non è che il desiderio di un’attività produttiva. Ma al di sopra di tutti questi temi, la solitudine è sicuramente il tema principale.
È una solitudine claustofobica perché tutti i personaggi del romanzo vogliono disperatamente comunicare, entrare in sintonia con gli altri ma falliscono sempre. I braccianti lavorano duro tutto il giorno e alla fine spendono tutto il loro denaro in un bordello o ubriacandosi. Se possono lavorare, allora vanno bene, in caso contrario sono esclusi dalla società, sono inutili. Non sono persone, sono oggetti utili al padrone. E le persone sono brutalmente emarginate anche per il colore della pelle e per una qualche menomazione fisica o mentale; e questa crudele esclusione è riservata anche gli animali, come il cane, ormai vecchio ed inutile, dello scopino Candy. Anche l’unica donna del romanzo, la moglie di Curly, figlio del padrone del ranch, è tragicamente sola. Il suo nome non è mai menzionato. Ripete continuamente di essere sola e di non poter parlare con la gente. Lo comunica disperatamente e tragicamente a Lennie, altro disperato. Emerge, insieme alla solitudine, una forma di pietà tra gli ultimi; non una vera coscienza di classe, uno sguardo alle reali condizioni di sfruttamento, ma umana pietà, compassione per la comune condizione di sofferenza; è questa pietà a spingere George a compiere un gesto difficile ma di profondo amore verso il suo amico Lennie a cui ha promesso di non lasciarlo solo e di proteggerlo dalla crudeltà degli altri.
L’amicizia non salva ma allevia il disperato viaggio chiamato vita.
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