Perché costruire comunità pensanti
La nostra era definita da più parti Antropocene si presenta come un periodo caratterizzato sempre più da fenomeni dove l’uomo sta modificando in profondità gli equilibri naturali e per questo lo si ritiene “periodo di tempo riflessivo” che impone a diversi livelli di interrogarci su tale stato di cose, su come interagiamo con la natura e come ne facciamo parte, in che modo operiamo e a ridefinire ‘il posto dell’uomo nella natura’ con il conseguente problema del loro comune ‘avvenire’, come avvertì quella singolare figura di scienziato-teologo che fu Pierre Teilhard de Chardin. Non è un caso dunque che di fronte alle sfide planetarie che ci attendono si avverte più che mai il bisogno di lavorare a mettere in atto in ogni contesto delle “Comunità Pensanti”, come recitava il titolo del volume Pedagogia e politica. Costruire comunità pensanti, a cura di Luciano Violante, Pietrangelo Buttafuoco e Emiliana Mannese (Lecce, Pensa MultiMedia Ed., 2021); da più parti si avverte oggi la necessità, dato l’esplodere della cosiddetta intelligenza artificiale, di governare le nuove tecnologie e soprattutto di educarci ad esse come si sottolinea in un altro lavoro scritto a due mani da due pedagogisti di lungo corso Franco Cambi e Franca Pinto Minerva, dal titolo Governare la tecnica. Il ruolo chiave della formazione (Milano-Udine, Mimesis, 2023)
Tutti i contributori di tali volumi, pur provenendo da ambiti culturali e politici diversi, sottolineano la necessità insieme teoretica ed esistenziale di ricostruire il rapporto stretto tra la pedagogia e la politica, del resto presente in modo costitutivo sin dal mondo greco, messo in crisi dai processi di globalizzazione col mettere in moto nuove dinamiche non riconducibili a schemi prefissati come nel passato e dall’attuale pandemia che hanno avuto come esito quello che Violante chiama “effetti di scomposizione delle comunità e di moltiplicazione delle solitudini”; e per ripristinare su nuove basi “l’intreccio tra educazione e politica” e “per vivere bene il presente e costruire il futuro” dominato dalle tecnologie è ritenuto strategico “riannodare le fila del rapporto con l’altro e con la comunità” . E contro i pericoli vari rappresentati dal presentismo e mode varie, di cui sono intrisi per lo più i Social veri e propri canali ideologici anche se appaiono neutrali, non a caso viene invocato il pensiero complesso come strategia insieme teorica ed esistenziale per disinfettarci; esso è ritenuto strumento indispensabile per ‘governare ed educare’ l’oggi, come suggeriscono nel loro contributo Mauro Ceruti e Francesco Bellusci che, insieme a Violante, insistono sulla stretta interrelazione tra il “destino del mondo” e il “destino politico” e che l’uno dipende più che mai dall’altro.
Così sia la politica e che la pedagogia vengono considerate dei percorsi che, pur nella rispettiva autonomia, per il fatto che non si trasmettono con le leggi ma con “la prassi, i comportamenti” stanno sempre più metabolizzando la coscienza ”delle connessioni profonde tra tutto l’esistente” e delle “interdipendenze che oggi legano strettamente ogni essere vivente all’altro essere vivente e all’intero pianeta”. Solo col forgiare in tal modo sia chi opera in campo educativo e sia chi opera a livello politico ed in ogni altro ambito del sociale, si possono gettare le basi di comunità pensanti più in grado di vivere in maniera autentica lo spirito democratico basato sull’”equilibrio fra diritti e doveri” a loro volta interdipendenti come sottolinea Violante, fatto già evidenziato da Simone Weil in L’enracinement, sua ultima opera meritoriamente fatta tradurre da Adriano Olivetti già negli anni ’50, per ricostruire in senso comunitario l’Europa dopo le macerie del secondo conflitto mondiale.
I diversi contributi presenti nei volumi insistono sulle diverse modalità che storicamente hanno permesso l’intreccio tra educazione e politica a partire dal mondo greco e sulla necessità del loro cambiamento nel XXI secolo per superare le nuove disuguaglianze dovute alle disparità cognitive e al knowldge gap con l’avvento della cosiddetta società della conoscenza dove vengono a giocare un ruolo sempre più pervasivo le nuove tecnologie della comunicazione. In esse, paradossalmente, la disinformazione sui social si propaga sei volte più velocemente di quella buona informazione col “provocare un’”ignoranza intenzionalmente indotta”, come recenti ricerche hanno evidenziato. Per contrastare tale fenomeno che “ostacola di fatto l’insorgenza di una nuova consapevolezza sociale” dell’”interdipendenza della condizione umana”, è ritenuto necessario che l’azione politica o meglio i politici si innalzino “al livello di questa complessità” con allontanare “l’appeal della semplificazione” ed ogni tentazione di “trovare soluzioni preconfezionate in anticipo”, come affermano Mauro Ceruti e Francesco Bellusci, in quanto l’umanità intera sta “sperimentando a livello planetario una condizione di estrema vulnerabilità a dispetto dell’eccezionale livello di potenza tecnologica raggiunto”.
Uomini con la vocazione politica ed educatori di ogni livello sono invitati, pertanto, a “riformare il pensiero” e a “superare il paradigma tecnocratico”, a “governare il technium” come lo chiamano sulla scia dei lavori di Kevin Kelly Cambi e Pinto Minerva, in quanto non è sufficiente da solo a garantire il progresso sociale e i livelli di democraticità raggiunti col rimettere al centro “la partecipazione politica, la passione di tutti per gli affari comuni”, i “pilastri dell’interdisciplinarità e dello spirito critico di cittadinanza” dove tutti sono invitati a ”imparare ad imparare”, compresi gli stessi esperti. Per questo è ritenuto doveroso lavorare a costituire delle comunità pensanti che fanno della ragione aperta il loro punto di partenza per “agevolare l’avvento dell’uomo planetario” nel senso già avanzato dal teologo Ernesto Balducci, e promuovere una “intelligenza della complessità” per far fronte alla “prima malattia dell’Antropocene” bisognosa più che mai dell’apporto dei vari saperi per essere affrontata adeguatamente a partire dalla conoscenza della storia che ha portato l’umanità all’era planetaria, come ha sostenuto Ceruti in diversi lavori.
Il virus che ci circonda per le sue intrinseche capacità di evolvere, di mutare e che sta rendendo “più tortuoso e fallibile il lavoro della ricerca scientifica”, costituisce per Ceruti e Bellusci una sorta di experimentum crucis in questo momento storico per l’intera umanità, quasi una risorsa cognitiva “da cui partire per comprendere a scuola come sia necessario interrogare il nostro modo di guardare il mondo e le cose” e soprattutto “conoscere i principi organizzatori della conoscenza”; le comunità pensanti sia in campo educativo che in campo politico hanno, pertanto, l’obbligo di rivedere i propri principi, di disinfettarli dal virus degli assolutismi sempre in agguato e di educare ad uno dei compiti più difficili, cioè quello di prendere atto dei “limiti” della nostra mente dove il “forgiare una mente complessa che problematizza se stessa” non deve apparire una umiliazione gnoseologica, ma lo sforzo teso ad inserire “ogni conoscenza nel suo contesto e nel suo insieme”. In tal modo le comunità pensanti sono più in grado di capire che “oggi, il contesto di ogni conoscenza politica, economica, antropologica, ecologica è il mondo stesso”; per questo ogni politica educativa dell’era digitale e planetaria deve essere “inquadrata in questa cornice umanistica: umanesimo della cura e umanesimo planetario” dove l’engagement di ogni operatore, il suo “punto archimedeo”, deve consistere nel “legare le conoscenze, per affrontare un mondo complesso e per legarci ancora più consapevolmente, solidalmente e creativamente in un destino comune”.
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