A proposito di alcune recenti ricerche sul razzismo
I fatti umani, pur essendo noi stessi gli artefici, sono a volte molto difficili da comprendere nel loro insieme in quanto vengono ad investire una serie di processi non facilmente riducibili a punti di vista standardizzati; e se oggetto di interesse sono le posizioni razziste che stanno sempre più prendendo piede in ogni parte del mondo, si rende necessario gettare uno sguardo a recenti ricerche che da diversi punti di vista cercano di fare il punto su tale complesso fenomeno. Ed è utile tenere presente un risultato conseguito da una ricerca condotta sugli studenti medi negli USA per capire sino a che punto un buon insegnamento delle discipline biologiche e in primis della genetica possa contribuire a prevenire tali atteggiamenti; gli esiti di tale ricerca, finanziata dalla National Science Foundation e pubblicati nel marzo del 2019 su Science Education, in Italia non hanno avuto la dovuta risonanza e hanno ricevuto una adeguata attenzione solo in un articolo da parte di Gilberto Corbellini, apparso sul giornale online Scienza in rete dal significativo titolo ‘Serve la genetica per prevenire il razzismo a scuola’.
Del resto, poi, è ormai ben documentato da vari studi sulla didattica delle scienze che se una teoria scientifica con tutto il suo corredo storico-concettuale di verità faticosamente conseguite è bene insegnata con le dovute modalità, viene non solo meglio compresa sul piano delle specifiche procedure, ma diviene soprattutto parte integrante del nostro patrimonio culturale; come ha magistralmente dimostrato Galileo, diventa uno strumento essenziale in grado di spazzare via pseudo-verità e visioni del mondo ad esse collegate su cui l’umanità per secoli ha basato la sua identità: le idee di essere al centro dell’universo e poi con Darwin di essere unici nel mondo del vivente.
Come chiarisce Corbellini, tale ricerca Usa ha il merito di analizzare la funzione svolta dal cosiddetto ‘bias cognitivo essenzialista’ a base delle posizioni razziali, cioè quella tendenza della mente umana, oggetto fra l’altro di studio della psicologia cognitiva e delle neuroscienze, che viene a formarsi deviando sistematicamente dalle evidenze; si sviluppa, infatti, sulla base di certe interpretazioni e revisioni di informazioni poi risultanti completamente diverse dai dati reali, pur essendo questi chiaramente di fronte a noi. Ormai è un fatto assodato, grazie agli sviluppi della genetica e della paleogenomica in particolar modo, che l’esistenza delle razze non ha nessun fondamento scientifico; anzi si è dimostrato da parte di Luigi Luca Cavalli-Sforza, Paolo Menozzi, Alberto Piazza in Storia e geografia dei geni umani il ‘fallimento scientifico del concetto di razza nell’uomo’, anche se qualche genetista come David Reich parla di ‘differenze’ e diverse ‘diseguaglianze’ nel corso dell’evoluzione in Chi siamo e come siamo arrivati sin qui. Ma le neuroscienze ci spiegano che gli atteggiamenti razzisti sussistono in quanto siamo portati a discriminare chi sta fuori del nostro perimetro; e ciò che sappiamo in merito alla non esistenza delle razze non porta a cambiare le nostre idee sulla percezione immediata dell’altro come diverso da noi, dove bastano il variare della pelle o altre caratteristiche secondarie che combinate con i pregiudizi familiari e sociali possono portare ad inferenze scorrette di tipo razzista, come hanno evidenziato i recenti lavori di Claude-Olivier Doron, L’homme altéré: races et dégénérescence del 2016 e soprattutto Fabio Ciracì, Sul razzismo (Milano-Udine, Ed. Mimesis, 2024).
Tali ricerche nel loro complesso dimostrano che sono importanti i fattori socio-culturali e cognitivi nel determinare le posizioni razziste col diventare così un modo di pensare, una vera e propria ideologia, ma che funzionano solo grazie all’esistenza di questo bias essenzialista, le cui origini si possono trovare per Fabio Ciracì in un certo platonismo: in esso le diverse specie e popolazioni non vengono interpretate secondo criteri di natura sociale, ma vengono considerate come il risultato di una diversità genetica con una storia evolutiva abbinati a dei processi degenerativi senza nessun riferimento a contesti politico-sociali.
La ricerca americana, a sua volta, si è posto l’obiettivo di verificare come sia possibile disinnescare o neutralizzare questo modo di ragionare dei ragazzi ricorrendo a figure fittizie, sulla falsariga delle disputationes medievali, dove com’è noto si discutevano due tesi contrapposte (si pensi alla famosa disputatio avvenuta nel 1305 alla Sorbona tra il teologo-filosofo francescano Duns Scoto ed un teologo-filosofo domenicano sulla immacolata concezione o meno della Madonna): le discipline biologiche non dicono niente a riguardo in quanto le razze non esistono e sono solo pure costruzioni ideologiche, oggetto di spiegazione delle discipline sociali; le razze esistono e affermano qualcosa su chi è naturalmente superiore o inferiore e quindi rientrano nell’ambito delle scienze biologiche. Vengono quindi spiegate la variabilità biologica e le diverse modalità con cui i geni ed il contesto culturale nel loro intrecciarsi concorrono a costruire il genotipo; in tal modo lo studente è stato in grado di capire meglio la variabilità e le diversità umane e soprattutto il fatto che i geni hanno lo scopo di costruire proteine e non vengono in nessun modo a determinare, isolatamente o da soli, una condizione e le caratteristiche di un essere vivente, come un’abilità, una inclinazione verso ad esempio la matematica o l’arte, l’essere violenti o meno, l’essere nero o bianco. In tal modo la ricerca dimostra che lo studente smette ‘spontaneamente’ di credere alle razze col ridimensionare in maniera decisiva il bias cognitivo essenzialista, e nello stesso tempo si rende conto che ogni individuo si approccia in maniera intuitiva, in base ai propri interessi contingenti, al modo di farsi una propria idea della complessa variabilità umana.
Ancora una volta, tale ricerca dimostra che la scuola ed una corretta formazione sono strumenti indispensabili per combattere le derive razziste col smascherarle per quelle che realmente sono, cioè pure costruzioni ideologiche senza nessun fondamento scientifico ma frutto di altre dinamiche, come viene magistralmente delineato nel lavoro di Fabio Ciracì, teso non a caso ad evidenziare le ‘strutture logiche e paradigmi storico-filosofici’ su cui si regge il razzismo; e a questo comune obiettivo devono contribuire, come ha sottolineato molto opportunamente Corbellini, gli stessi scienziati che lavorano nell’ambito delle complesse discipline biologiche che hanno una specificità concettuale da comprendere con adeguati strumenti di natura epistemologica che spesso mancano. Poi essi sono relativamente pochi rispetto a migliaia di scienziati sempre più impegnati negli ultimi tempi a correggere le disinformazioni sul cambiamento climatico, sugli Ogm e sui vaccini; i genetisti ed in paleogenetisti in particolar modo sono invitati, pertanto, a chiarire al pubblico il senso di alcuni punti cruciali delle loro ricerche dove ormai sta diventando sempre più evidente l’estrema variabilità genetica insieme con la difficoltà di tenere separato l’aspetto ereditario da quello ambientale.
In tal modo e nello stesso tempo non vengono lasciati soli i cultori di discipline umane e storico-sociali nello spiegare che la razza è soltanto il frutto di sofisticati processi culturali che vanno individuati e spiegati; gli insegnanti, nel prendere atto che un buon insegnamento della genetica può prevenire il razzismo a scuola, diventano mediatori indispensabili in tale processo educativo una volta acquisiti i relativi strumenti critici in grado di neutralizzare il più possibile la consistenza delle posizioni razziste. Ed essi nel loro quotidiano stare con i più giovani possono favorire quella possibile ‘nuova alleanza’ tra scienze umane e scienze naturali, come auspicava negli anni ’80 del secolo scorso il Premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine ed oggi al centro della nuova Paideia di tipo cosmopolita, nel senso avanzato da Edgar Morin e Mauro Ceruti.
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