Carnevale mesagnese: una tradizione documentata dall’anno 1654
In occasione della sua visita pastorale nella terra di Mesagne nell’anno 1654 (Tomo IV, p. 779) l’arcivescovo di Brindisi, Lorenzo Reinosso, emise alcuni decreti, tra cui: “…Comandamo per quanto stimo informati delli disordini et scandali che sogliono succedere in questa terra in tempo del carnevale per l’inquietudine che fanno le persone ecclesiastiche a noi soggette: ordinamo che da qui avanti nessuno di quelli nostro suddito si debba mutar di abito mascherarsi o trasformarsi, né andare…né tirando piloccie cetrangoli, né andare di notte sonando, né dicendo parole dissoneste nelle finestre delle case di essa terra sotto pena di carcerazione per un mese continuo et ducati dieci applicandi alla fabbrica di questa chiesa (ndr. chiesa di Sant’Antonio di Padova fuori le mura)…”.
Il secondo documento che attesta la presenza a Mesagne di riti legati al carnevale è legato alla visita pastorale dell’arcivescovo di Brindisi, Francesco De Estrada, iniziata il 3 maggio del 1663. Il 17 maggio, dopo aver visitato le numerose chiese della città, infra ed extra muros, il capitolo si riunì nella chiesa Collegiata (attuale chiesa Matrice), con l’allora archipresbitero (arciprete) Angelo Spoti, il tesoriere, il cantore, i presbiteri (sacerdoti) tutti, i rappresentanti dell’università cittadina e forse anche il principe di Mesagne De Angelis . Nella solenne occasione l’arcivescovo dettò i suoi decreti: “Nos d. Franciscus de Estrada ritrovandoci in questa santa visita generale di questa terra di Mesagne, acciò nella colleggiata chiesa di essa si aumenti il culto divino e si riformi di quanto appartiene all’ecclesiastici comandamo si osservino li seguenti decreti…. (omissis)………………. Si proibisce all’ecclesiastici con pena di scomunica di fare il lupo nel tempo del carnevale essendo diabolica invenzione di molto scandalo e grandi inconvenienti. E così ancora ordinamo al nostro reverendo vicario foraneo che in detto tempo in nome nostro faccia pubblico editto con proibire alli secolari non facciano similmente il lupo, con scomunica maggiore latae sententiae per evitare li disordini suoleno e ponno succedere…………………. (omissis) …………………………………………. Et perché nell’altra visita passata furono proibiti tutti li giochi come stanno proibiti dal diritto all’ecclesiastici però confermando il decreto sopra di ciò fatto proibimo ancora sotto pena di scomunica maggiore a tutti l’ecclesiastici il gioco di palla e maglio mentre si vede alla giornata l’eccessi irreparabili ne succedono.” (L. GRECO, Storia di Mesagne in età barocca, Vol.III, L’architettura sacra nella storia e nell’arte – Appendice documentaria - Santa Visita fatta dall’Arcivescovo Francesco De Estrada in Mesagne nel 1663, Schena Editore, Fasano 2001, pag. 277)
Per meglio comprendere l’importanza di una tale testimonianza, basta sapere che “fare il lupo nel tempo del carnevale” può ricondursi ad un’antichissima festività romana, i Lupercalia, che si celebravano nei giorni allora considerati nefasti di febbraio, tradizionalmente mese purificatorio. E’ dubbio se si tenessero in onore del dio Fauno (nella sua accezione di Lupercus, protettore di capre e pecore dall’attacco dei lupi), oppure che ricordassero l’allattamento di Romolo e Remo da parte di una lupa. Certo è che si svolgevano dal 13 al 15 febbraio, al culmine dell’inverno, quando i lupi affamati si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi. La festa era celebrata da giovani
sacerdoti, chiamati luperci, con una maschera di fango sulla faccia, che indossavano le pelli delle capre sacrificate al dio Pan Liceo (dei lupi), dalle quali venivano tagliate delle strisce da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci correvano colpendo con quelle fruste sia il suolo, per favorirne la fertilità, sia tutti quelli che incontravano, in particolare le giovani donne. Queste inizialmente offrivano volontariamente il ventre, ma con il passare del tempo tendevano semplicemente il palmo delle mani. In questa fase della cerimonia i luperci erano contemporaneamente capri e lupi (PLUTARCO, Vita di Romolo, 21,4-10; Vita di Cesare, 61) (DIONISIO DI ALICARNASSO, Antichità romane, 1.79.6, 1.80.1-3) (OVIDIO, Fasti, II.425-
452). I Lupercalia furono una delle ultime feste dell’antica Roma ad essere abolite dalla Chiesa, tanto che in una lettera di Papa Gelasio I°, datata 495 d.C., si riferisce che a Roma durante il suo pontificato si tenevano ancora, nonostante la popolazione fosse da tempo cristianizzata. Gelasio, con quella lettera rimproverava Andromaco (l’allora Princeps Senatus) per la partecipazione dei cristiani alla festa. Si ignora se questa sia stata abolita in quell’occasione oppure sia sopravvissuta, ma con il tempo il significato religioso della festa si è andato perdendo, rimanendo solo un carattere folcloristico (GELASIO I PAPA, Adversus Andromachum senatorem et caeteros Romanos qui Lupercalia secundum morem pristinum colenda constituunt, anno 495 d.C.).
Evidentemente questi riti carnevaleschi erano presenti a Mesagne da molto tempo prima del 1663. Come attesta l’arcivescovo, sia i giovani sacerdoti che i giovani cittadini si travestivano da lupi per inseguire le donne, creando non poco scompiglio nella cittadina dell’epoca, che possiamo immaginare abbastanza chiusa e bigotta, tanto da richiedere l’autorevole intervento della Chiesa per ripristinare l’ordine pubblico. Però la Mesagne di allora era contemporaneamente una fucina di medici, fisici e poeti, con una struttura sociale viva che poteva permettersi di celebrare un rito come quello suesposto, irriverente e dissacratorio. Erano gli anni in cui il giovane Diego Ferdinando scriveva le sue monumentali storie dell’intera Terra d’Otranto, studiate nei successivi secoli da generazioni di dotti. Non dubitiamo che l’intervento dell’arcivescovo sia stato risolutorio per quanto riguarda l’abitudine di “fare il lupo nel tempo del carnevale”. Così però non deve essere stato per “il gioco di palla e maglio”.
Infatti il carnevale continuò ad essere festeggiato, come dimostra un documento di quasi un secolo dopo, del 17 gennaio 1756. Si tratta di una decisione del capitolo di Mesagne, conservato nel locale Archivio Capitolare, dove si legge: “Die mensis Januarii 1756 congregatis more solito sonum campanae intus sacristiam huius insignis Ecclesiae Collegiata Messapiensia pro non nullis Capitulibus negotiis agendis infrascriptis Referendis Dignitatibus Canonicis ac Presbiteris portionaris. Videlicet “ Segue la firma dell’arciprete (archipresbitero) Moranza, del tesoriere, dei cantori e di tutti i sacerdoti del capitolo, con la decisione finale: “Parimenti fu concluso, che si desse gratis senza pagamento alcuno il Magazzeno alli Giovani Comici, che intendono fare un’opera dentro questo Carnevale”. Tale documento, repertato alcuni anni fa dal prof. Rosario Jurlaro, è stato pubblicato dallo studioso Antonio Pasimeni. Non è possibile sapere quale fosse l’opera di quei “Giovani Comici”, che per consuetudine doveva tenersi nei giorni del carnevale, presso gli ampi locali (Magazzeno) del capitolo, adiacenti alla chiesa Matrice. A Mesagne, però, è rimasta copia scritta di un’opera comico-teatrale, recitata in dialetto, denominata la “Carnascialesca”, che forse non sarà la stessa ma si ripropone comunque nell’ambito di quell’antichissima tradizione, insieme alle “Satire” dei popolani.
---------------
Per restare aggiornato con le ultime news del Gazzettino di Brindisi seguici e metti “Mi piace” sulla nostra pagina Facebook. Puoi guardare i video pubblicati sul nostro canale YouTube.
Per scriverci e interagire con la redazione contattaci