Trump e la diplomazia della complessità: una nuova architettura globale?
Nel corso del suo primo mandato presidenziale, Donald Trump ha intrapreso una politica estera caratterizzata da decisioni audaci e spesso controverse, suscitando dibattiti sia a livello nazionale che internazionale. Tra le iniziative più rilevanti, spiccano gli Accordi di Abramo del 2020, che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e diversi Stati arabi, i cui risultati si sono visti nelle ultimissime tensioni tra Israele e Hamas, segnando un passo significativo verso la stabilità in Medio Oriente. Risultati eccellenti sono stati ottenuti anche nella gestione del dossier nucleare iraniano e nella politica verso la Corea del Nord. Con l'inizio del suo secondo mandato, Trump sembra intenzionato a costruire un capolavoro di diplomazia internazionale, concentrandosi sulla complessa relazione tra Ucraina e Russia.
Per comprendere appieno le sfumature di questa strategia, è utile esaminare la situazione attraverso la lente della teoria della complessità. La teoria della complessità è un campo interdisciplinare che studia i sistemi composti da molteplici elementi interagenti, i cui comportamenti collettivi non possono essere facilmente previsti analizzando le singole parti. Questi sistemi, noti come sistemi complessi, presentano proprietà emergenti e comportamenti non lineari, rendendo la loro analisi una sfida affascinante. Applicando questa prospettiva alla politica estera di Trump, emerge una comunicazione pragmatica volta a rassicurare il presidente russo Vladimir Putin. Ad esempio, definire il presidente ucraino Volodymyr Zelensky un "dittatore" può essere interpretato come un messaggio a Putin, suggerendo la disponibilità a negoziare e garantendo che il potere russo rimarrà saldo, senza interferenze esterne. Trump è consapevole che Putin presenterà tali negoziati come una grande vittoria, ma al contempo l'Ucraina punta a preservare la propria integrità territoriale, affrontando le questioni territoriali in modo tale che la Russia non ottenga vantaggi significativi, al netto di tutte le narrazioni, talvolta fantasiose, sulle cosiddette “terre rare”, che, di fatto, sono poca cosa o ancora tutte da scoprire e dimostrare, e sulle dinamiche dei rapporti tra Ucraina e Stati Uniti.
L'obiettivo è un'Ucraina integrata nell’Europa, ma non nella NATO, soluzione che risulterebbe gradita sia a Putin che a Zelensky, quest'ultimo ormai consapevole che l'adesione all'Alleanza Atlantica è solo un miraggio. La teoria della complessità ci insegna ad ampliare il nostro orizzonte interpretativo, riconoscendo che le azioni di Trump nei confronti di Russia e Ucraina avranno ripercussioni positive anche nell'area del Pacifico, in particolare nelle relazioni tra Cina e Taiwan. Implicitamente, la Cina potrebbe sentirsi rassicurata da un approccio che privilegia la stabilità e il dialogo, riducendo le tensioni in quella regione. Naturalmente, le critiche nei confronti di Trump non mancano, spesso focalizzate sulla sua politica di destra, ma egli fa semplicemente il suo mestiere: il politico di destra, piaccia o meno. In conclusione, l'approccio di Trump alla politica estera nel suo secondo mandato riflette una comprensione delle dinamiche complesse che governano le relazioni internazionali. Attraverso una comunicazione strategica e una visione olistica, egli mira a promuovere la stabilità in aree geopolitiche chiave, con l'obiettivo di costruire un'eredità diplomatica duratura che coinvolga l’intero pianeta. Un rapporto stabile e armonioso tra Stati Uniti, Cina e Russia potrebbe avere implicazioni di portata storica. E l’Europa? Se non procederà rapidamente verso la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, sul modello americano, sarà destinata a diventare una periferia.
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