Lu Nfiernu di Claudio Santoro

Marcello prof. Ignone Giugno 10, 2022 1914

Nato il due di aprile del 1946 nella vicina Torre Santa Susanna ma da sempre residente ed impegnato a livello sociale e culturale a Latiano (Brindisi), Pietro Claudio Santoro, maresciallo dell'aeronautica in pensione, ha pubblicato il suo primo libro e lo ha fatto cimentandosi con la traduzione di alcuni canti dell’Inferno dantesco in dialetto latianese.

I canti dell’Inferno tradotti in dialetto latianese, seguendo la versificazione dantesca sono undici (1-3-4-5-6-7-13-22-26-33-34); a corredo dei canti non c’è solo una traduzione in lingua italiana ma ci sono anche delle note aggiuntive di alcuni dei termini dialettali meno conosciuti. E non basta. I canti sono incorniciati in “un testo in prosa a corredo dei versi”, “due testi in una trama romanzesca”, come dice lo stesso Santoro nell’introduzione. Dulcis in fundo, Santoro ha pensato bene di aggiungere anche una breve guida alla lettura del dialetto latianese.

Le vicende sono naturalmente ambientate “attorno al milletrecento” a Latiano, anche se la storia si dipana da Firenze a Roma, a Brindisi, lungo la Via Appia, e dalla città salentina, via mare, fino in Terra Santa, per far ritorno di nuovo a Latiano ed infine, dopo molto tempo, a Firenze; la città toscana è poi protagonista di una delicata storia d’amore al tempo dell’alluvione della metà degli anni Sessanta del secolo scorso.

Il personaggio, le cui avventure muovono la storia, è Fiorenzo Maria Delle Colonne (un omaggio di Santoro alla moglie Fiorenza?), autore di un diario e traduttore dei versi danteschi in dialetto latianese ad uso e consumo degli abitanti del casale di Latiano. Altri personaggi sono Mastro Virgilio, meštru Virgigliu lu uarnamintaru, e lo stesso Dante Alighieri.

I due testi romanzeschi, ma in realtà sono tre, si chiudono con un altro testo, un terzo ma in realtà il quarto, che racconta la storia di Ruggero, il mozzo bambino della nave che porta Fiorenzo da Brindisi a S. Giovanni D’Acri.

Un’opera ibrida, mista di ampi brani in prosa tra storia, quella con la “S” maiuscola, e verosimiglianza aristotelica, per restare in tema dantesco, e canti in versi. In pratica è un prosimetro e per Santoro tutto deve avere le apparenze del vero, come voleva appunto Aristotele, perché tutto deve essere scupolosamente verosimile, al punto che l’autore si premura addirittura di descrivere in appendice e prima della breve storia di Ruggero, “un brindisino fuori dal comune”, una galea veneziana, quella sulla quale Fiorenzo viaggia di ritorno dalla Terra Santa. Naturalmente la descrizione è sempre sotto il vigile controllo dell’arte, come dice lo stesso Santoro alla fine del libro e della biografia di Ruggero: “Non so se anche questa è storia… ma io ci credo”. Come non ricordare gli indimenticabili versi di Dante sull’argomento: “Morti li morti e i vivi parean vivi: / non vidi mei di me chi vide il vero” (Purgatorio XII, 67-68; mei = meglio).Copertina_libro_lu_nfiernu.jpg

Ora, qualcuno avrà forse da ridire sulla pretesa di Claudio Santoro di avere a Latiano il sommo poeta della letteratura italiana attorno ai primi anni del Trecento; “verosimilmente” e giocando con i dati, potrebbe non essere del tutto peregrina una simile idea. La Commedia non fu composta prima del 1305-1306 e le copie più antiche risalgono a dopo il 1330 (Dante muore nel 1321); i manoscritti arrivati fino a noi sono circa 700 ma nessuno scritto di pugno e firmato da Dante! I più preziosi sono i manoscritti dell’antica vulgata, cioè i codici precedenti quelli di Boccaccio (risalenti al 1340); non abbiamo, quindi, copie di mano del sommo poeta, sia quelle parziali trascritte da altri ma Dante vivente, sia quelle trascritte immediatamente dopo la morte del poeta fiorentino; da tenere presente che le opere dantesche (non solo la Commedia e La Monarchia) furono delibertamente distrutte o andarono comunque disperse.   

Infine, la riflessione sorge spontanea: la Divina Commedia è un poema allegorico che sottintende un insegnamento morale; Santoro, a pag. 267, alla fine del libro, esplicita la sua morale finale; testualmente: “Spero che questo mio lavoro riaccenda in alcuni di voi la passione per il nostro dialetto. Esso sta agonizzando come le tradizioni, i costumi, la cultura contadina, i monumenti, le masserie abbandonate, i pochi trulli rimasti, la chiesa di San Donato, la neviera, gli acquari, i muri a secco, i paretoni, le specchie, il bosco “Scaracci” e tante altre cose. Se, o quando, ciò accadrà, diverremo estranei, assenti presenze su di una terra anonima che non avrà più nulla da raccontarci. Io non ho più né l’età né la forza di combattere contro l’incuria e l’indifferenza. Chi può, faccia qualcosa, subito, senza aspettare, perchè il tempo non aspetta. Insisto, col rischio di diventare anch’io come quei pappagalli che ripetono sempre le stesse cose: Chi ha tempo, non aspetti tempo! L’esperienza mi ha insegnato che, comunque, non è mai troppo tardi.”    

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