L’obbligo di una vera e propria filosofia della violenza

Mario Castellana Ottobre 14, 2024 682

 Dato che ancora una volta la violenza sta entrando in questi ultimi tempi tra guerre ed altro più che mai prepotentemente nelle nostre case, forse è il caso di interrogarsi sul perché delle cause più profonde di questo fenomeno costante nella storia dell’umanità anche spinta dal fatto, per parafrasare  Henri Lacordaire, che le cose si comprendono e ‘si vedono meglio’ solo quando gli occhi hanno già versato molte lacrime; e questo porta alla presa di  coscienza che è nostra responsabilità, morale e teoretica insieme,   scavare nei diversi strati del reale ed in particolar modo nel sottofondo delle azioni umane per interrogarle in continuazione, ‘ogni giorno e ogni ora’ con delle ‘domande alle quali ci tocca rispondere, dando una risposta esatta’, là dove siamo in grado di farlo, come ci ha ammonito Victor Frankl. Del resto questo è il compito primario e specifico del pensiero e delle singole scienze che, come hanno sostenuto diverse figure ed in particolare Karl Marx in  Il capitale, sarebbero dei percorsi ‘superflui se l’apparenza e l’essenza delle cose coincidessero’; i  diversi percorsi cognitivi messi in atto, infatti, hanno la capacità di liberarci dalla ‘schiavitù dei dati empirici o bruti’, a dirla con  Federigo Enriques, col renderci più responsabili, meno passivi e più creativi.

E nello stesso tempo, se ben metabolizzati, i processi conoscitivi, come ha scritto Antonio Gramsci in una significativa pagina dei Quaderni del carcere, si rivelano  essere  dei costitutivi  passaggi ‘dal sapere, al comprendere, al sentire, e viceversa, dal sentire, al comprendere, al sapere’; ed  in tal modo si tramutano in vere e proprie epistemi  esistenziali e  sociali nel senso che ci costringono a ‘migliorare prima dentro di noi’ per poter fare poi qualcosa di più strategico ‘per il mondo esterno’, come ci ha insegnato quel ‘cuore pensante’ delle violenze ed efferatezze umane che è stata Etty Hillesum; il suo   percorso nel cercare di darne un adeguato senso, come ogni autentico e sano percorso umano, è stato un non comune frutto del continuo coniugare il ‘come’ delle ragioni del reale col loro ‘perché’, che poi è il percorso che ogni sano pensiero sia scientifico che filosofico mette in atto.

Se ci avviciniamo al complesso fenomeno della violenza  da ‘cuori pensanti’ e con il pieno di lacrime versate nel corso della  storia, siamo in grado di darne un più adeguato posto nei nostri vissuti cognitivi ed esistenziali col percepirlo come un problema cogente ed ineludibile; e non è un caso dunque se esso sia venuto a maturazione in questi ultimi decenni in vari campi dopo le ultime tragedie del primo Novecento anche perché  continua ad essere quasi un nostro compagno di strada anche se non gradito, ma a volte tollerato in quanto ancora non siamo entrati nelle sue pieghe più nascoste che comunque ci interpellano inchiodandoci nelle nostre responsabilità. Pur essendo  stato continuo oggetto di analisi storiche,  sociologiche,  psicologiche, morali ed antropologiche concentrate per lo più all’interno del problema filosofico del male, in questi ultimi decenni  è entrato a far parte integrante di diverse discipline scientifiche come la primatologia, la genetica comportamentale, le neuroscienze in generale, e quelle più incentrate sul versante sociale in modo più particolare,  e la psicologia politica; esse stanno costituendo un nuovo capitolo del pensiero filosofico-scientifico col darci una pluralità di  spiegazioni e di informazioni  imprescindibili per avviare  un discorso più ‘esatto’ ed organico sulle molteplici cause della violenza e sulle diverse forme assunte e modalità d’essere, alcune delle quali stanno coinvolgendo l’intero pianeta Terra con conseguenze ancora non del tutto visibili che possono alterare e deviare il corso del ‘nuovo Antropocene’ che, sia pure tra molte difficoltà, siamo obbligati a tracciare  come da più parti viene invocato.

Affrontarle con nuovi strumenti, pertanto, è un obbligo per ogni autentico pensiero, costituisce una ulteriore ‘sfida’ a cui non ci si può sottrarre tra le tante che ci assediano data la posta in palio dei problemi sempre più planetari; e questo perché occorre prendere atto, come ci ha spiegato il primatologo Richard Wrangham, che solo  nel caso dell’Homo sapiens essa violenza, nella forma chiamata  ‘aggressività proattiva’, è il risultato di un’azione pianificata e razionale  che va scandagliata per cercare di tenerla sotto controllo. Alcuni recenti lavori poi, disponibili in edizione italiana come Cervelli in guerra  di Mari Fitzduff,  Menti tribali  di Jonathan Haidt  e L’amore, l’odio che regola la nostra vita e il cervello  di Michel Rochon (Torino,  Codice Ed. 2021 e 2022), permettono di avere un quadro più realistico dei meccanismi e dei diversi  fattori che contribuiscono a scatenare i fenomeni violenti anche se a volte risultano abbinati ad atti di bontà, tale da poter parlare di ‘enigma’ come hanno messo in evidenza lo stesso Wrangham in Il paradosso della bontà. La strana relazione tra convivenza e violenza nell’evoluzione umana (Torino, Bollati Boringhieri 2019)  e  Paul Bloom in Le origini del bene e del male (Torino, Codice Ed, 2014).

Una conoscenza il più possibile ‘esatta’ ed appropriata di tali ingranaggi per questi autori può essere d’aiuto nel predisporre percorsi e strategie di peacebuilding che possono attutire i fenomeni violenti e portare la nostra ‘aggressività proattiva’ su binari meno pericolosi per l’intera umanità; e per arrivare ad un punto di svolta che li renda gestibili col farci più responsabili e col non nascondere più ‘il capo sotto la sabbia’, c’è bisogno di un’attenta riflessione a largo raggio che ci dia  il ‘coraggio di non chiudere gli occhi davanti all’orribile realtà’ come in modo provocatorio già negli anni ‘20 del secolo scorso aveva avvertito Franz Rosenzweig in La stella della redenzione e nelle intense pagine di Il nuovo pensiero. E dato che questa problematica  non ha avuto una degna attenzione organica, è arrivato, pertanto, il momento di farla entrare come settore specifico di indagine  e come capitolo non secondario della filosofia che  ha trovato la sua sede d’origine nel nostro Mediterraneo, teatro pure di frequenti e sanguinosi eventi, come del resto altre parti  del mondo. A questo ormai ineludibile e sempre più cogente problema verso cui non si può più mentire, come avvertiva  già Simone Weil nelle sue lucide analisi sulla guerra e l’uso della forza, sono rivolti alcuni studi recenti come  il lavoro di  Lorenzo Magnani nel riproporci Filosofia della violenza (Milano-Udine, Mimesis, 2021), in una nuova e rielaborata edizione critica, dopo quella originale in inglese del 2011 e quella italiana del 2012;  e tale suo percorso rientra in un progetto più generale teso da tempo a quella che viene chiamata in diversi lavori significativamente ‘riconversione eco-cognitiva della ragione e della scienza.

Tale testo, che  suscitò un intenso dibattito per una serie di ‘provocazioni’ esposte, ci  provoca ancora oggi a partire dal piano  teoretico, in quanto Magnani fa rientrare il fenomeno della violenza in quel vasto campo della cosiddetta ‘filosofia applicata’, campo di indagine di cui tra l’altro è uno dei maggiori esponenti col dirigere una omonima collana internazionale; ed il tema della violenza nelle sue varie forme, comprese  quelle del linguaggio e della comunicazione per arrivare a quelle religiosa e politica, è ritenuta un banco di prova  per tale ambito per vedere sino a che punto la sua comprensione critica possa rivelarsi utile. E non  è dunque un caso se tale settore sia diventato in questi ultimi anni  un altro ‘luogo dell’intelletto’ in senso kantiano, dove le diverse forme  di intellegibilità del reale di per sé astratte,  elaborate il più delle volte faticosamente col dare adito ad un vero e proprio ‘travaglio dei concetti’ come lo chiamava Federigo Enriques,  si misurano in funzione delle azioni che riescono a mettere in atto e per la capacità di fare cambiare attitudini di vita nei vari contesti  con conseguenziali comportamenti più virtuosi.

Il testo Filosofia della violenza, che in base agli ultimi  e ancora una volta drammatici eventi si rivela ancora più attuale, si segnala per una serie di problemi che ci interrogano in profondità, come del resto ogni seria fatica frutto del lavorio concettuale; ci obbliga nello stesso tempo  ad avere un quadro più realistico del comportamento violento col darne conto delle  diverse articolazioni,  sulle quali non si può mentire, pena il suo vendicarsi col riproporsi sempre di più sotto forme inedite e più devastanti. Una prima basilare provocazione è quella che deve produrre “lo sguardo filosofico”  nel suo porsi di fronte alla violenza e fornirci “una specifica forma di intelligibilità” di essa per orientarci in modo più razionale nei suoi confronti, una volta però preso atto che  “noi umani siamo intrinsecamente esseri violenti”, fatto su cui spesso si sorvola per “dissimularla… usando ricette rapide, sommarie, o scientiste”  e che va “spiegata” come avverte Magnani. E tutto il volume è quasi un inno alla “pazienza filosofica”, attitudine di pensiero che va coltivata in profondità per spiegare in tutte le loro sfumature  i comportamenti violenti, in quanto nel prenderne una  più adeguata  “consapevolezza” che, “seppur non terapeutica”, potrebbe essere d’aiuto nell’’’aumentare le nostre chances di diventare almeno esseri ‘responsabilmente’ e consapevolmente violenti”.

Anche se questo risultato può sembrare minimo ma come ci insegnano alcuni recenti risultati delle scienze cognitive, tenuti presenti da Magnani e arricchiti da altri contribuiti provenienti dalla biologia evolutiva e da altri settori di indagine come la psicologia sociale e lo studio comparato delle religioni, la presa di coscienza più razionale di un evento, di un reale e della sua  intrinseca complessità, ed in questo caso della violenza, è sempre funzionale ad una diversa  presa in carico con tutte le possibili conseguenze che ne possono derivare; diventa così importante una classificazione delle forme di violenza  e la loro individuazione, come quelle presenti nell’’intelligenza militare’ per arrivare alla “natura violenta del linguaggio”, al ruolo dei mediatori morali che possono essere dei “mediatori violenti”, ai processi poco scandagliati con cui “moralità individuali multiple possono scatenare violenze” e degli  stessi atteggiamenti religiosi con “argomentazioni teologiche violente”. Non c’è dunque un campo dell’umano esente dall’essere un portatore di comportamenti violenti; ma dove tale lavoro di Magnani si rivela oltremodo utile e provocatorio, è nelle numerose pagine dedicate all’analisi delle forme con cui a vari livelli si cerca  di dissimularla da parte degli esseri umani, restii a prenderne dovuta coscienza.

Ma il compito del più sano pensiero, a partire in primis da quello filosofico-scientifico, è quello di metterci di fronte ad un fenomeno che esiste come quello della violenza e, anche se si mettono in atto dei continui processi di rimozione,  di dargli una “maggiore dignità filosofica”, come è successo all’arte, alla scienza, al diritto, alla tecnica, alla religione, ed ora al digitale; elaborare la filosofia dell’arte, la filosofia del diritto, la ‘filosofia della violenza’ e così via non è dunque un esercizio puramente teorico o accademico ma, come dicevano già i Maestri Greci maestri proprio nel ricavare dalle loro speculazioni insegnamenti utili per l’intera agorà ed il governo della città, uno strumento indispensabile per agire con più responsabilità nelle dinamiche dell’Antropocene le cui sfide di dimensioni planetarie richiedono da una parte una ‘pazienza filosofica’ costante e dall’altra approcci dove la stessa violenza va gestita per renderla il più possibile estranea alle logiche dell’umano e per non estenderla al pianeta. E tale lavoro di Lorenzo Magnani,  con le diverse provocazioni  che ci procura, aiuta in tal senso a ‘non chiudere gli occhi’ per sperare di versare meno lacrime.

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