Porto Cesareo, il brigantaggio in Terra d’Arneo e il giovane “brigante” Cosimo Manieri di Nardò
Porto Cesareo, il brigantaggio in Terra d’Arneo e il giovane “brigante” Cosimo Manieri di Nardò.
Oggi nessuno studioso mette in discussione che l’Unità d’Italia fosse necessaria dal punto di vista geopolitico: ci si chiede, semmai, se i modi della sua attuazione abbiano risposto alle attese reali delle popolazioni coinvolte; ci si chiede se abbiano prevalso gli ideali culturali e politici o, piuttosto, le logiche economiche delle lobby interne e internazionali e – soprattutto – ci si chiede se ci fu un vero e democratico coinvolgimento di tutti gli strati sociali o se, al contrario, si assistette a un vero e proprio atto di arbitrio.
La nascita del Regno d’Italia, proclamata il 17 marzo 1861, dichiarava la penisola unificata, ma era solo una mera unità politica. Le situazioni da risanare e i problemi che aspettavano risposta rimanevano enormi. Uno di essi, fondamentale, concerneva l’istruzione di base di una popolazione che nelle regioni dell’Italia meridionale era a livelli infimi, con circa il 90% di analfabetismo (contro il 55% nel settentrione dell’Italia).
L’agricoltura era in uno stato di arretratezza tale da favorire metodi di lavoro e di sfruttamento ancora feudali.
La miseria era causa di malattie endemiche – diffuse dalla mancanza di acqua potabile che mietevano un numero sempre più grande di vittime.
Riepiloghiamo la cronologia degli avvenimenti.
- 5 maggio 1860, Garibaldi salpa da Quarto con i Mille.
– 7 settembre 1860, dopo lo sbarco in Sicilia, Garibaldi risale la penisola e fa il suo ingresso a Napoli.
– 21 ottobre 1860, il Plebiscito sancisce l’annessione del Sud alla monarchia sabauda. – 7 novembre 1860, Vittorio Emanuele entra solennemente in Napoli per proclamare gli esiti del recente plebiscito che sancisce l’annessione ufficiale del Regno delle due Sicilie, dell’Umbria e delle Marche all’Italia di Vittorio Emanuele. Il Plebiscito fu una finzione per calmare le inquietudini degli Stati europei, “una cosa tra la farsa e la truffa”. Il decreto ufficiale che regolamentava il plebiscito conteneva alcune norme discutibili come, ad esempio, la non segretezza del voto. Votavano tutti i cittadini che avessero compiuto 21 anni. Nei luoghi destinati alle votazioni, alla presenza vigile della Guardia Nazionale, su di un apposito banco si trovavano tre urne, una vuota in mezzo e le altre due ai lati. In una urna i biglietti del SI, nell’altra i biglietti del NO. I votanti davanti allo sguardo di tutti i presenti, prendevano il biglietto con il SI o quello con il NO e lo deponevano nell’urna centrale. Il che rendeva il voto manifesto davanti a tutti.
- 27 gennaio1861, elezione del primo Parlamento italiano.
– 13 febbraio 1861, presa di Gaeta e successiva fuga di Francesco II di Borbone a Roma.
– 18 febbraio 1861, convocazione del primo Parlamento italiano.
– 17 marzo 1861, nascita del Regno d’Italia e proclamazione di Vittorio Emanuele II re d’Italia. Con un atto molto semplice, il Parlamento approva una legge formata da un solo articolo: il re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia.
A causa di alcuni errori del governo piemontese, ormai italiano, la situazione nelle terre del vecchio Regno delle Due Sicilie era veramente disastrosa.
La borghesia delusa dalle dinamiche secondo le quali l’Unità italiana fu attuata; le masse contadine impoverite dalle tasse, dai balzelli e dalla coscrizione obbligatoria, oppresse da un sistema sempre più vessatorio nei rapporti politici; i soldati del vecchio esercito borbonico sbandati, in cerca di una qualsiasi collocazione; i garibaldini e i democratici delusi dal nuovo ordine; il clero in fermento per le tensioni tra lo stato unitario e la Santa Sede; la burocrazia borbonica demotivata per l’intromissione massiccia dei quadri dirigenziali calati dal Nord. Tutti questi fermenti in atto innescarono reazioni laceranti nel tessuto della società meridionale - favorite dalla propaganda legittimista di Francesco II che, fuggito da Gaeta, risiedeva presso il Papa a Roma - che detonarono nelle rivolte degli Abruzzi, della Lucania, della Calabria e della Puglia.
A proposito della coscrizione obbligatoria, con l’annessione all’Unità d’Italia, fu istituito il servizio militare obbligatorio che durava ben sette anni. Furono chiamati alle armi tutti gli appartenenti agli anni di leva del 1857,1858, 1859 e 1860. L’introduzione del servizio obbligatorio di massa, suscitò notevole sconcerto tra le popolazioni meridionali e contribuì ad alimentare il brigantaggio.
Nacque un feroce brigantaggio politico-militare: formazioni armate, guidate dai capi briganti, correvano le campagne, invadevano i boschi, insediavano le strade, occupavano le città. Anche Terra d’Otranto fu teatro di violenze e atrocità che vide scontri a fuoco tra le bande dei briganti e i reparti dell’esercito e della guardia nazionale.
Lo Stato italiano approvò e applicò in gran fretta la Legge Pica, con l’intenzione di imporre la più ferrea repressione contro queste bande violente e i loro fiancheggiatori.
È stato ipotizzato che per debellare questo fenomeno sarebbe stato sufficiente sviluppare un’avveduta riforma agraria e contestualmente favorire la nascita di un ceto imprenditoriale.
Si preferì invece mostrare i muscoli, chiamando l’esercito a intervenire e trasformando problemi squisitamente politici e sociali in fatti di polizia.
Il brigantaggio è una pagina che non può – come vorrebbero alcuni – essere dimenticata: esso fu certamente delinquenziale, come ancora molti sostengono. Esso però, fu anche un tentativo di sottrarre i contadini dalla miseria nella quale i galantuomini - quelli che avevano tradito il loro sovrano Borbone e dato sostegno al nuovo regime - costringevano la povera gente a vivere, nella negazione assoluta dei loro diritti e delle loro legittime aspirazioni.
Uno solo fu l’interesse di questi galantuomini patriottici: impedire che i contadini ottenessero le terre demaniali che essi avevano già usurpato.
La classe dirigente che aveva sempre servito il Borbone, aderiva al movimento liberale (da qualche decennio orfano delle baionette e dei capestri di Napoleone) per evitare che nello stesso prevalessero gli elementi radicali, contrari all’incondizionata annessione al Piemonte sabaudo, il cui atteggiamento era suscettibile di provocare disordini e manifestazioni che facili a degenerare nell’occupazione delle terre usurpate.
Proclamatasi liberale nell’agosto del 1860, questa classe dirigente assumeva il governo della Provincia cosicché, avvalendosi della Guardia Nazionale, controllava la situazione manifestatasi nel paese e, abituata da sempre a servire il potente del momento, riusciva a farsi perdonare il servilismo al Borbone dagli uomini scesi dal settentrione per avvalersi delle vittorie e dei successi garibaldini.
Estranei agli avvenimenti, i contadini subivano le suggestioni degli eventi, illusi che dal buon Garibaldi avrebbero ricevuto finalmente le terre usurpate e che sarebbe stato posto un limite alle pretese e agli abusi dei ricchi privilegiati contro i poveri.
Il ritorno degli esuli e i successi garibaldini in Sicilia ebbero vasta ripercussione.
Molto presto, però, delusi dalle promesse non mantenute, qualche anno dopo l’Unità, si registrava un’adesione massiccia dei contadini alle insurrezioni che divamparono in tutto il Meridione.
A spingere i ceti inferiori contro il nuovo regime non fu certamente la devozione all’antico sovrano, ma un sentimento di reazione verso la nuova classe dirigente che conservava immutate le antiche condizioni economiche e sociali nel paese, opponendosi alle istanze legittime dei contadini.
Nonostante i provvedimenti annunziati dai vari Prodittatori, le terre rimanevano proprietà degli usurpatori, mentre il nuovo regime, ansioso solamente di assorbire la vecchia classe dirigente, lasciava inalterata la tragica situazione in cui versava la povera gente.
Gli uomini scesi dal Nord per amministrare le province conquistate e per reprimere lo spirito di rivolta che minacciava gli interessi dei moderati, non concepivano che l’anelito degli oppressi a un migliore tenore e, ravvisando nelle istanze dei contadini sentimenti antiliberali, li dichiararono nemici del nuovo regime e con i loro atteggiamenti da conquistatore finirono per provocare la ribellione dei contadini verso l’ordinamento costituito.
Le illusioni caddero presto: oppressi da una miseria che oscurava ogni speranza, tormentati dai morsi della fame e attanagliati dalla disperazione, i contadini ascoltarono i nostalgici dell’antico regime e si lasciarono suggestionare dalla nuova illusione che una restaurazione borbonica avrebbe reso reale quella distribuzione delle terre demaniali che, sempre promessa dai liberali, era negata da chi aveva portato il nuovo regime al governo delle province.
Il fenomeno del brigantaggio, molto antico, trovava adesso nuova linfa e vigore nel disperato disagio sociale delle classi più umili.
In questo contesto si inserisce la storia di tanti giovani salentini ed in particolare di Cosimo Manieri di Nardò che nel novembre 1861 aderisce, (lui afferma contro la sua volontà), ad una banda brigantesca comandata da Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio di San Marzano. Dopo il bando del generale Fanti e il proclama del generale Cialdini, (entrambi i decreti vengono pubblicati in tutti comuni del Salento), che prevedono la fucilazione per chi viene sorpreso con le armi in mano, molti briganti si presentano con la promessa del perdono. Appena viene informato che è stata approvata la legge che chi si costituisce avrà salva la vita, notte tempo, Cosimo Manieri, riesce a scappare e a presentarsi al Delegato di Pubblica Sicurezza. Da questi viene interrogato:
<<L'anno milleottocentosessantatre il di diciotto febbrajo in Nardo'
Noi Eugenio Avitabile Delegato di Pubblica sicurezza del Mandamento di Nardò assistito dall'Applicato di P.S. Sig. Ferdinando Polizzi
appositamente richiesto al Sotto prefetto del Circondario, conoscendo che il nominato Cosimo Manieri di Orazio di questo mandamento sin da' principi di novembre ultimo trovavasi arruolato nella Compagnia de Briganti capitanata da nominati Sergente di Gioja >> [si tratta di Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle(1833-1863), ex sergente dell’Esercito borbonico e alfiere della 1^ compagnia del 5° Reggimento di linea, meglio noto con i nomi di Sergente Romano, di Enrico La Morte e di Francescano Terribile, soprannome derivato non per la devozione a San Francesco d’Assisi ma perché partigiano di Francesco II di Borbone] <<e Pizzichicchio,>> [Cosimo Mazzeo di San Marzano di San Giuseppe nel tarantino] <<e sempre intento al bene del Paese ed a vendere servizi allo Stato, abbiamo cercato con ogni mezzo di farlo presentare, promettendogli di raccomandarlo alla clemenza Sovrana, sempre che ci avesse coadiuvati a far catturare porzione, od a far presentare anche porzione di suoi compagni, o tutta la banda della quale egli faceva parte, come di fatti il sud[d]etto Manieri per mezzo di persona di nostra fiducia , da noi adoprata nel rincontro, ci fece sapere esser pronto a presentarsi, indicandoci il sito ed il giorno in cui lo avremmo trovato. Difatti oggi ci siamo portati nel sito denominato l'Incoronata che dista circa due miglia dall'abitato, ed abbiamo rinvenuto il risud[d]etto Manieri che ci attendeva e che ha voluto esser ripetuto le assicurazioni di essere cioè raccomandato alla Sovrana Clemenza e Noi giusto l'Editto del Sig. Prefetto della provincia de' sedici dicembre ultimo, avendo annuito a desideri esposti dal Manieri lo abbiamo di poi condotto nel nostro ufficio in Nardò ove dopo di avergli diretto le solite domande di rito ci ha fatto le seguenti rivelazioni.
Signore- Io mi chiamo Cosimo Manieri di Orazio da Nardò di anni venti – Il giorno diciotto novembre dello scorso anno io da Leverano mi recavo nella masseria denominata Manieri in tenimento di Arneo, in compagnia di quel fattore di cui ignoro il nome; allo scopo di portare del tabacco onde conservarlo per uso proprio, e la sera ci trattenemmo nell'abitazione di detto fattore. La mattina seguente io fui mandato a casa del massaro, che dista mezzo miglio dal sito dove ci trovavamo, e propriamente detta la Macchia, onde dire alla moglie che nascondesse il fucile del di lei marito, ed arrivato colà seppi dalla medesima che era stato sequestrato detto fucile dalle Guardie Nazionali, che pochi giorni prima erano passati per quel sito in perlustrazione. Nel ritornare a casa del fattore onde portare una tale risposta al Massaro, mi incontrai in una comitiva composta di trenta a trentacinque Uomini a cavallo armati tutti di fucile, pistole e[armi] da taglio, i quali nel vedermi, staccarono uno dalla brigata per domandarmi cosa io facessi per quei luoghi, al che io risposi essere andato per affari a casa del massaro. Portata questi la mia risposta ad uno della compagnia che sembrava farla da capo, fu ordinato che non mi fossi mosso perché dovea seguirli ed insegnar loro la via che mena a Francavilla. Io risposi allora negativamente, ma essi mi obbligarono a viva forza e mi consegnarono ad alcuni di quei briganti a custodirmi, dopo di che si recarono nella casa del massaro ove io era stato pochi momenti prima e domandarono alla di costui moglie se avesse biada pe cavalli e stalle da farli riposare, al che questa donna rispose che non vi era locale da poterli contenere tutti, né biada da darli a mangiare. In questo mentre sopraggiunse il massaro, al quale furono fatte le stesse domande ed avendo risposto ne stessi sensi che la moglie, furono presi entrambi a colpi di bastonate e minacciati della vita da un tale D. Angelo chiamato il Caporale della compagnia>> [Angelo Raffaele Quartulli di Andrea e di Trinchera Rosalba, questi era don Angiolino, di Ostuni che si accompagnava anche a Tito Trinchera di Pietro e Potio Maria anch’egli facente parte della banda brigantesca. Fra la moltitudine di contadini, braccianti, nullatenenti e sbandati, che popolavano le formazioni brigantesche, spiccano due giovani di buona famiglia. In effetti si tratta di due giovani, tra loro cugini, il Trinchera è il figlio del notaio Pietro Trinchera di Ostuni, può darsi che il notaio facesse parte del Comitato filoborbonico?). Continua la testimonianza del Manieri<< Il giorno verso le ore ventitre [Le ore sedici attuali. All’epoca qui da noi non vi era ancora l’abitudine all’uso dell’ora italiana. Le ore non si iniziavano a contare dopo le ore 24,00, ma dal suono dell’Ave Maria, vale a dire a partire da mezz’ora dopo il tramonto del sole. Perciò le ore si contavano da una fino a ventiquattro, a partire dal suono dell’Ave Maria. Ciò comportava un diverso inizio del nuovo giorno che variava a seconda dei mesi. Per semplificare, se in un giorno invernale il sole tramontava alle 16,30(ora solare), mezz’ora dopo suonava l’Ave Maria ed iniziava la prima ora di notte (ora 24,00) che corrispondeva alle attuali ore 17,00. In estate invece, se il sole tramontava alle ore 19,30, la prima ora di notte equivaleva alle 20,00 quindi la 24 esima ora di allora corrispondeva alle ore 20 di oggi], continua il Manieri, dopo di aver mangiato alcuni commestibili, che portavano con loro, e lasciato dal massaro un cavallo gravemente infermo, mi posero in groppa ad un cavallo montato da uno di loro compagno, e ci recammo tutti alla masseria detta Sarmenta, [che oggi fa parte del Comune di Porto Cesareo ed è la zona dove vi è il Cimitero], che dista poche miglia da quella Manieri, ove arrivammo verso l'imbrunire. Là presero cinque agnelli ed obbligarono quel Massaro a cucinarli ed a somministrar loro de maccheroni che dopo di aver mangiato disposero otto fazioni [sentinelle]in diversi punti e presero ricovero tutti ed anche io nella stalla di quel Massaro ove si passò la notte. [Le masserie divennero basi di rifornimento di viveri per gli uomini e per i loro cavalli, di pernottamento specialmente in inverno, cambiando sempre alloggio. Diventavano anche luogo di arruolamento di nuovi adepti. Naturalmente il massaro era impossibilitato a rifiutare]. La mattina seguente ci recammo in tenimento di Veglie ed Erchie ove avendo visto che veniva la cavalleria e fanteria, prendemmo l'altura da dove i briganti gridavano alla truppa “Avanti, avanti nemici della Chiesa” dopo di aver scambiato con essa varie fucilate, vedendoci assaltati dalla fanteria prendemmo la fuga. In tale rincontro[vi furono feriti] tanto da parte de briganti che della Truppa, ma però i primi abbandonarono un cavallo perchè zoppo, che fu preso dalla Truppa, fuggendo sempre passammo pe' feudi della Vetrana, [oggi Avetrana], Manduria e Francavilla, prendendo riposo in un luogo deserto di quest'ultimo, e di poi continuammo la marcia verso Grottaglie ove in una di quelle masserie s'impossessarono di una giumenta, inseguiti sempre dalla truppa però che tirava fucilate senza colpo ferire. Arrivati in un bosco limitrofo due briganti si gittarono da cavallo e fuggirono per quelle macchie abbandonando la compagnia che …per questo fatto cercò di raggiungerli onde fucilarli, ma invano perché la notte.... fece perdere le tracce. Verso mezz'ora di notte arrivò in quel sito un [‘] altra comitiva di circa centosettanta tutti a cavallo comandata dal Sergente di Gioja>> [il sergente Pasquale Domenico Romano del quale abbiamo già parlato. Il sergente Romano, che ad agosto del 1862, incontrò alcuni uomini, capi di diverse bande, provenienti dalle province di Bari e di Lecce (allora Taranto e Brindisi facevano parte della provincia di Lecce). Si riunirono in una grotta del bosco delle Pianelle, nelle vicinanze di Martina Franca, per formare una grossa banda di duecento uomini circa ed avere così una unità di comando e di organizzazione. Nell’occasione fu nominato comandante con il grado di maggiore, Pasquale Domenico Romano ex sergente borbonico. All’incontro presero parte i maggiori protagonisti del brigantaggio: Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio di San Marzano, Giuseppe Nicola Laveneziana, detto Il figlio del Re di Carovigno, Antonio Locaso, Il Capraro di Labriola, cittadina della Basilicata, Giuseppe Valente, Nenna Nenna di Carovigno, Francesco Monaco di Ceglie Messapica. Ad ognuno di loro, a seconda dei seguaci che avevano, venne attribuito il grado di capitano, sergente o caporale. Al comando di questi uomini, il sergente Romano condusse una feroce campagna di brigantaggio scontrandosi in diverse occasioni con i soldati piemontesi, con i militari dell’Arma dei Carabinieri e contro la Guardia Nazionale assaltando diversi centri abitati e masserie di proprietà dei liberali, non attaccando mai le proprietà dei filoborbonici. Gli episodi degli attacchi alle masserie iniziano ai primi di settembre 1862 e si alternano con gli assalti ai vari centri abitati di Alberobello, Grottaglie, Carovigno ed Erchie. Ad ottobre 1862 abbiamo lo scontro di Santa Teresa, masseria del brindisino dove vengono uccise tre guardie nazionali e come trofeo per incutere terrore tagliarono parte dell’orecchio ad altre guardie nazionali fatte prigioniere. A questo episodio il Manieri non partecipa in quanto viene arruolato a novembre del’62. Lo rileviamo dal racconto di un altro brigante costituitosi volontariamente, Vincenzo Mazzeo De Prezzo di San Donaci e residente in Mesagne. Dall’interrogatorio del De Prezzo emergono alcuni fatti accaduti nel brindisino con l’attività ricattatrice condotta mediante l’uso di biglietti estorsivi nei confronti di proprietari di masserie da parte delle bande di Nicola Laveneziana e di Giuseppe Valente e del sergente Romano appellato Errico La Morte o Franciscano Terribile. Tutto questo avviene nell’autunno del 1862. Il fatto gravissimo è quello avvenuto il 23 ottobre del 1862 nella masseria Santa Teresa, quando avviene uno scontro a fuoco tra la banda brigantesca forte di 50 uomini, e di cui faceva parte anche il De Prezzo, contro il sergente dei carabinieri a cavallo Giuseppe Fiorineschi I, originario di Pistoia ed in servizio presso la Stazione dei Carabinieri di San Pietro Vernotico, mentre con alcuni carabinieri a cavallo e due a piedi e con varie Guardie Nazionali di Cellino San Marco era in perlustrazione nei dintorni di quest’ultima cittadina e Tuturano.
Vediamo cosa scriveva Il Cittadino Leccese del 31 ottobre 1862:
<< Verso le ore 11 ant. del 23, una colonna composta di 5 Carabinieri a cavallo e 2 a piedi con 45 G.N. s’incontrava alla masseria S.Teresa con una banda di briganti a cavallo, che avea a suo capo, La Veneziana.
I Carabinieri a cavallo credendo essere sostenuti dalla G.N. si slanciarono alla corsa contro i briganti; questi accennarono darsi alla fuga, ma nel frattempo la G.N. presa da timor panico fuggiva in direzione di Cellino sparpagliandosi per la pianura.
Di ciò avvistisi i briganti sostarono e fecersi quindi addosso ai Carabinieri che si trovarono costretti retrocedere, sostenendo la ritirata dei due che erano a piedi. Fortunatamente per i Carabinieri i briganti volendo attorniare la G.N. fuggente formarono un semicerchio nella pianura, ed i Carabinieri poterono combattere alla spicciolata e farli sostare, dando così luogo alle G.N. di rientrare in paese.
Un brigante, caduto da cavallo, [si trattava di Carmine Patisso citato dal De Prezzo], impostò il suo fucile contro il Carabiniere Arini e con un colpo lo rovesciava da cavallo fratturandogli il braccio destro. Quindi il brigante stesso gli era addosso dandogli col fucile sulla testa, ma il Carabiniere afferravalo pel collo colla mano sinistra, e sopraggiunto il Brigadiere Fiorineschi e il Carabiniere Pilutto, scaricavagli questo un colpo di revolvers, ed assestavagli l’altro più colpi di sciabola nella testa per cui rimase come morto.
I briganti accorrevano allora in soccorso di lui: ed i Carabinieri, rimontato a fatica l’Arini a cavallo, dovettero ritirarsi in paese, inseguiti sempre dai briganti. Rimasero prigionieri di questi 12 militi, che invece di ritirarsi eransi nascosti nella macchia, dei quali uccisero tre perché portanti pizzo e baffi all’italiana, e rilasciarono gli altri nove dopo avergli tagliato un pezzo di orecchio, per essere così pecore segnate. I cadaveri dei tre uccisi furono rinvenuti in parte bruciati. Il brigante ferito fu portato via dai briganti quasi moribondo>>.
Le tre Guardie Nazionali uccise furono Marco Pecoraro, Cristofaro Miglietta e Giuseppe Mauro detto il mesagnese. Un’altra Guardia Nazionale, Vit’Antonio Donadeo, ebbe salva la vita perché mentre stava per essere ucciso, esclamò Madonna del Carmine aiutami e il fucile si inceppò, allora il sergente Romano, l’uomo che stava per eseguire la fucilazione del Donadeo, disse <<alzati che tu sei salvo, e devi essere veramente devoto della Madonna del Carmine come ne sono io; le devi fare una gran festa>>.
Dall’interrogatorio del De Prezzo emergono tanti altri particolari, ma soprattutto che la banda era tanto forte al punto da ipotizzare di liberare i carcerati del bagno penale di Brindisi <<di aggredire Brindisi e più facilmente Mesagne>>.
Continua il racconto del Manieri:<< si scambiò colla nostra dei segni convenzionali a colpi di fucile che sparavano a ripresa, e dopo di essersi riconosciuti si unirono tutti. Il Sergente di Gioja domandò al Capitano della nostra comitiva denominato Cosimo Pizzichicchio, [si tratta di Cosimo Mazzeo di San Marzano] ch'io fossi, e questi avendo risposto che mi aveva seco condotto perché creduto una spia. Si decise da tutti i capi di fucilarmi, ma alle mie preghiere mi lasciarono provvisoriamente in vita, riserbandosi di sapere in seguito precise notizie sul mio conto. Dopo di ciò ci mettemmo tutti in cammino per quei monti ed ….......colla truppa di linea si ebbe uno [scontro] nel quale ognuno tirò un quattro colpi di fucile, restando morto un brigante ch'era il mestro armiero della banda ed in questo rincontro io mi intrattenevo in un sito riparato a [guardia] di otto cavalli de capi della compagnia che dirigevano l'attacco a piedi alle spalle di una muraglia ed essendosene fuggito un cavallo di quei che io custodiva fui malmenato dal Maggiore cioè il Sergente di Gioja che mi tirò due piattorate con la sciabola [sta ad indicare il colpo di piatto e non di punta con la spada. Si usa per fare male e non per ferire o uccidere] e quattro colpi di cravascia, [lo scudiscio], dicendo ch'io era un male intenzionato e che se i suoi sospetti si verificassero mi avrebbe fatto fucilare; ed avendo io chiesto perdono fui risparmiato da altri castighi. La truppa però ci stringeva d'appresso e noi dovemmo fuggire per quei monti camminando sempre senza poterci neanco riposare la notte. La mattina seguente ci trovammo nei boschi detti delle Noci presso Martina ove si riposò e si mangiò del cibo apprestatoci da quei Massari, ed invani passammo l'intera giornata e nottata. Nel seguente giorno fui portato dal Maggiore con otto individui che componevano i capi della compagnia, non compreso il Pizzichicchio che si restò colla compagnia ad una masseria poco discosta onde più agevolmente riposare in casa di quel massaro,>> [Si tratta del seguente episodio. Il 1° dicembre 1862 la comitiva in formazione completa (Romano, Laveneziana, Mazzeo, Lo Caso, Valente), lasciò il bosco Pianella di Martina Franca e si diresse alla volta di Noci, pervenendo verso le ore ventidue (corrispondenti a circa le ore sedici attuali), alla masseria Monaci, posta tra Noci, Alberobello e Mottola. “luogo ideale e già frequentato in precedenza per sostare al sicuro, perché all’interno di boschi e folte distese macchiose”. Nel frattempo il sergente Romano, con il Manieri e altri otto compagni, si allontanavano per andare in alcune masserie vicine in cerca di viveri e foraggio. Laveneziana, Mazzeo (Pizzichicchio), Lo Caso (il capraro) e Valente e molti altri dei briganti che erano rimasti alla masseria Monaci, all’improvviso vennero sorpresi dai soldati della 16^ Compagnia del 10° Reggimento fanteria condotti dal capitano Ernesto Molgora. Il Romano, giunto alla masseria limitrofa dopo aver affidato i cavalli al Manieri, si era messo a tavola per mangiare], continua il Manieri<<e mi affidarono i loro cavalli, e nel mentre si stavano a tavola s'intesero delle fucilate al che si posero subito a cavallo mi rimisero in groppa e si corse a raggiungere il grosso della comitiva che faceva fuoco colla truppa. All'arrivare trovammo che già erano morti i due briganti Laveneziana di Carovigno ed un tal Francesco galeotto evaso, e ci dammo tutti a precipitosa fuga perchè stretti d'appresso dalla truppa,>> [da Carella p.182, riportando il racconto di Giuseppe Greco di S.Vito, … “allo scoppio di poche fucilate… corsero i tre capitani Laveneziana, Pizzichicchio (Mazzeo) e Nenna Nenna (Valente); non così Errico La Morte (il sergente Romano) che per essere andato in cerca di foraggi e viveri per le masserie limitrofe, ritornava quando il fuoco, da ambo le parti ferveva tra i suddetti capitani con altri dei Briganti di questi, e la Truppa; e poiché si prendeva da questa il sopravvanzo, il predetto La Morte senza punto impegnarsi gettò via il suo cappello(l’insegna del comando: il cappello con la coda di volpe!) covrendosi con il berretto tolto ad un compagno(espediente che gli consentì di salvare la vita). Nello scontro, Giuseppe Nicola Laveneziana rimase ucciso insieme ad altro brigante; furono feriti Pizzichicchio,<<da proiettile alla scapola sinistra>>, ed il Quartulli,<<in una gamba da un colpo di palla>> ]…continua la deposizione del Manieri, <<camminando tutta la notte per quei boschi c'incontrammo verso l'albeggiare con tre briganti feriti, cioè Cosimo Pizzichicchio, un tal D. Angelo di Ostuni[Quartulli], ed un tale di Grottaglie di condizione Vucciere che furono portati da due fidati de superiori in due case vicine al bosco in cui ci trovavamo, continuando poscia il cammino verso la Basilicata in un paese della quale c'incontrammo colle altre bande di Chiaravalle Coppolone e Cavalcante[erano queste bande di un certo rilievo della Basilicata] e dopo di aver confabulato con questi altri capi sulle mosse da farsi, in ….. che dovevano dividersi in piccole bande per tener distratta la truppa, e ch'erano venuti degli ordini del Papa che da essi si leggevano stampati in carta cerulea ove si davano le norme [su] tutto il da farsi. [Dal racconto del Manieri abbiamo la conferma dell’incontro, in un paese della Basilicata, con i capi banda Chiaravalle, Coppolone e Cavalcante che dopo aver parlato tra loro con l’intenzione di formare una unica e grossa banda, leggono i vari dispacci a stampa su carta di colore ceruleo con gli ordini inviati dal Papa dice il Manieri. Naturalmente non era il Papa ad intervenire direttamente sulla questione ma erano gli emissari della corte borbonica e quindi il già noto sostegno delle autorità pontificie. Scrive Tùccari, (p. 78): “Il governo pontificio, irritato per la perdita delle Marche e dell’Umbria annesse al Piemonte, favorì il movimento per la restaurazione e assicurò inizialmente il suo incondizionato appoggio alla causa di Francesco II. Lo stesso Pio IX, che non aveva dimenticato il prezioso aiuto politico e militare ricevuto da Ferdinando II e la premurosa ospitalità ricevuta durante il suo prolungato esilio a Gaeta, accolse i deposti sovrani nel palazzo del Quirinale e li circondò di ogni attenzione. E anche quando la famiglia reale si trasferì a palazzo Farnese la Curia romana, e in particolare il Segretario di Stato cardinale Antonelli, continuò a sostenere con ogni mezzo le iniziative del deposto sovrano” Ecco il ruolo svolto dalla Curia romana a sostegno delle rivendicazioni legittimiste e del brigantaggio, considerato anche milizia armata a difesa della religione. Come scrive Guagnano (Prefazione, p. 4) “…gli emissari della corte borbonica, in esilio a Roma a palazzo Farnese, strumentalizzando con un’intensa attività cospirativa il grande malcontento contadino per la mancata quotizzazione dei demani e per la questione dei renitenti alla leva. Il Borbone, quindi, s’adoperò attivamente per alimentare il conflitto sociale contro i vecchi e i nuovi liberali, creando e finanziando comitati reazionari nei centri più importanti del Mezzogiorno” Per Mesagne ne dà notizia don Paolano Grande, sacerdote liberale, che successivamente lascia l’abito talare, quando indirizza un esposto alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio dove scrive tra l’altro"…il Clero di Mesagne fomentato dall’Arcivescovo di Brindisi, tiene il suo Comitato segreto, raccoglie e manda il suo obolo a San Pietro, e fa delle dimostrazioni reazionarie in varie circostanze pervertendo le masse…” Continua Guagnano “ Questi organismi clandestini riuscirono a fomentare disordini e insurrezioni in numerosi centri, provocando vittime e devastazioni, che indussero le popolazioni locali a innalzare nuovamente il vessillo borbonico e a inneggiare al deposto sovrano. Tali disordini ebbero successo sia perché il mantenimento dell’ordine pubblico era demandato solo alla discussa e odiata Guardia Nazionale, sia per l’irrisoria presenza sul territorio di truppe regolari. Queste ultime, chiamate a sedare contemporaneamente e in più luoghi i tumulti, solo dopo qualche tempo riuscirono a ristabilire l’ordine, mediante processi sommari e fucilazioni di massa, soprattutto nei confronti degli appartenenti ai ceti più umili. [La repressione affidata all’arbitrio dell’esercito fu il modo più facile per affrontare l’emergenza]. Sconfitti nei centri abitati, i filoborbonici si spostarono nelle campagne, alimentando quel fenomeno insurrezionale che costituì un vero incubo per il nuovo stato unitario: il brigantaggio. L’insorgenza che affondava le sue radici nell’endemica povertà dei contadini delle regioni meridionali, fu favorita in quel periodo da una sfavorevole congiuntura economica e da un errore di valutazione del nuovo governo, il quale alla richiesta di lavoro e di opere pubbliche rispose con una politica di rafforzamento dell’apparato repressivo”. Continua la deposizione di Cosimo Manieri “Proseguimmo di poi la via sino ad an......, lasciando le surriferite bande al loro posto avendo sempre alla testa della nostra, che componevasi di un settanta uomini, il Sergente di Gioja, trattenendosi ivi un pajo di giorni per quei monti. Ritornammo in seguito per la stessa strada ove eravamo passati lasciando nelle murge della Basilicata Antonio il Capraro [il Lo Caso] con circa venticinque de nostri, e continuando col resto della compagnia il cammino passammo per un bosco attraversato da un fiume, che guatammo e poscia camminando per circa quattro ore per l’altra parte di detto bosco che confinava col mare si giunse a S. Eramo nell’altro bosco denominato Lezzo ove riposammo la notte. Nel seguente giorno ci portammo verso l’albeggiare al limitare del bosco che confina col tenimento di Gioja, e mettemmo quattro fazioni alle diverse mura di cui é circondato, mandandosi dal Maggiore quattro altri briganti in cerca di vitto, e che portarono dopo circa un’ora e mezza. Dopo mangiato il Maggiore mi dette a tenere due cavalli e si pose a dormire con tutti gli altri. Verso le ore ventidue [le ore sedici di adesso] le fazioni chiamarono all’armi e dissero che arrivava la cavalleria, ma non avemmo il tempo di metterci a cavallo, che si cominciò a far fuoco.[ I sopravvissuti allo scontro di Masseria Monaci di San Domenico si ritrovarono in una grotta a circa due miglia distante i bosco le Pianelle, nel quale vi potevano benissimo alloggiare più di duecento cavalli; i capi, tutti scissi e discrepanti tra di essi, rivoltesi reciproche accuse, decisero d’andare ognuno per la propria strada abbandonando il progetto di fondersi in un’unica formazione paramilitare. Angelo Raffaele Quartulli (Don Angelo), che abbiamo visto era rimasto ferito, rimase con il sergente Romano e il 4 gennaio 1863 morì insieme al suo capo, il sergente Romano, ed ad altri ventidue compagni, nel Parco della Corte in contrada Vallata in territorio di Grumo Appula, non lontano da Gioia del Colle, in un epico scontro a fuoco con i cavalleggeri di Saluzzo, guidati dal capitano Carmine Bolasco. Il sergente Romano morirà in conflitto, sotto i colpi di sciabola del sergente Michele Cantù dei cavalleggeri Saluzzo, al quale chiederà di essere finito da soldato con la fucilazione, sembra che il Cantù abbia risposto “muori da brigante”, e lo finirà inesorabilmente a sciabolate]. Continua la deposizione del Manieri raccontando i fatti del 5 gennaio 1863, <<Circondato ben presto però da tutte le parti da Cavalleria, Fanteria, Guardia Nazionale e Carabinieri rimasero molti briganti uccisi e tra questi il Maggiore, cioè Sergente di Gioja ed io ebbi l’opportunità di fuggire con altri otto compagni, rifuggendoci nel folto del bosco ove passammo la notte sempre guardigni e camminando. Il mattino ci trovammo ne boschi di Martina ove rinvenimmo quattro altri briganti tra cui un Piemontese chiamato Castaldi, evaso dal Carcere i quali non vollero seguirci e si rimasero colà, dicendo perché era morto il Maggiore. [Carlo Antonio Gastaldi, soldato piemontese della provincia di Biella, distintosi nella Seconda Guerra d’Indipendenza, in servizio a Brindisi, stava scontando una pena per aver commesso alcune irregolarità. Durante un trasferimento riuscì ad evadere nei pressi di Fasano, aggregandosi nel novembre del 1862 al sergente Romano, diventandone leale e fraterno amico]. Camminando sempre arrivammo ne’ boschi [nei pressi di] Grottaglie ove in una casa di un Vaccaro [che] sta là in mezzo ad un pascolo rinvenimmo Cosimo Pizzichicchio, suo fratello ed un di costoro traba[ccan]te a nome Nicola, co’ quali ci unimmo formando una Compagnia di undici individui di cui il Cosimo Pizzichicchio si fece capo e ci condusse verso S. Marzano ove in quei pascoli trovammo altri quattro briganti di quelli che si erano sbandati dopo l’attacco nel bosco delle Noci presso S. Eramo che si unirono a noi recandoci alla trana e propriamente a Monacizzo; qui io domandai il permesso a Pizzichicchio di lasciarmi andare a vedere mio fratello ma mi fu negato. In seguito camminando marina marina arrivammo a S. Pietro della Vagna [così era chiamato nell’antichità San Pietro in Bevagna] procurandoci da mangiare da tutti i massari che s’incontrarono, e poscia a S. Chiara in tenimento di Nardò ove il Pizzichicchio mi lasciò in custodia ad un brigante onde non farmi parlare con persone di quel tenimento con cui io potessi aver conoscenza, affine di non propagare la disfatta toccata in S. Eramo, e si recò col rimanente pe luoghi circostanti. Dopo poco ritornarono conducendo agnelli e formaggio e portatoci tutti nel bosco di Arneo, si mangiò. L’indomani giorno di sabato stando colà ci accorgemmo che una colonna di Guardia Nazionale passava pel bosco senza vederci, perché eravamo rannicchiati nelle macchie, ed il Pizzichicchio già avea saputo da persone de’ vicini paesi, suoi messi, che la Guardia Nazionale dovea rinseguire e perciò ci ava fatto nascondere in quelle macchie. La s[era della] domenica poi ci si passò in un pascolo presso Monacizzo onde mangiare e divertirci essendo l’ultimo del Carnevale ed io avendo saputo da un Vaccaro che mio Padre mi cercava e che gli era stato promesso dal delegato di P. S. di Nardò che se io mi presentassi e facessi delle rivelazioni, il medesimo mi avrebbe raccomandato a’ di lui superiori, io gli feci sapere che avrei trovato il momento opportuno per fuggire, come difatti verso le ore due di notte della stessa Domenica profittando che i Briganti ballavano ed erano tutti avvinazzati, mi tolsi le scarpe onde non far rumore, e mi detti alla fuga arrivando jeri in casa di mio fratello alla Cesarea [Porto Cesareo] onde vederlo e dirgli ch’io mi sarei presentato al sud[d]etto Sig. Delegato giusto l’appuntamento datogli al luogo detto l’Incoronata due miglia discosto dall’abitato[ Dopo che il Manieri fugge per costituirsi, la banda di Pizzichicchio continua le sue scorrerie insieme a Tito Trinchera ed altri, sembra una trentina circa, fino a quando il sedici giugno 1863, alla masseria Belmonte, oggi in territorio di Crispiano, una colonna mista di carabinieri, cavalleggeri di Saluzzo e guardie nazionali al comando del capitano Francesco Allisio inflisse un duro colpo alle bande Pizzichicchio-Trinchera che furono annientate. Il bilancio fu tragico, 21 briganti morti, 11 catturati, compreso Tito Trinchera che era stato ferito, condotti a Taranto furono fucilati. Pizzichicchio riuscì a sottrarsi alla cattura con la fuga. A gennaio del 1864 fu catturato. Processato poi dal Tribunale militare di Potenza fu condannato a morte mediante fucilazione e così muore Pizzichicchio all’età di 27 anni]. Continua il Manieri <<come difatti oggi fedele alla mia promessa e stanco di menare una vita alla quale era stato tratto per forza, mi son portato nel sito indicato ove avendo rinvenuto il Sig. Delegato che mi attendeva solo, mi ci son presentato e condotto nel suo Ufficio gli ho fatto la sud[d]etta dichiarazione alla presenza anche del Sig. Segretario e di due testimoni, e l’ho pregato di nuovo perché mi avesse raccomandato al Re ed ai suoi superiori, essendo io pronto a servire anche Volontariamente da soldato in un Reggimento qualunque.
Di chè ne abbiamo formato il presente verbale, sottoscritto da Noi dal sud[d]etto Sig. Applicato, avendo il Manieri dichiarato di essere analfabeta, nonché da due testimoni da noi richiesti nelle persone di Pasquale Bruno e del Laico Domenicano F. Francesco de Marco.
Fatto in Nardò il detto giorno, mese ed anno
Pasquale Bruno testimonio
Francesco de Marco test.nio
L’applicato di P. S.
Ferdinando Polizzi
Il Delegato P.S.
Eugenio Avitabile
Svanisce così il sogno di Cosimo Manieri, che non era un delinquente comune, non era un nemico della povera gente, ma voleva sottrarsi alla miseria in cui, i galantuomini, coloro che si erano arricchiti con l’usurpazione dei terreni demaniali, costringevano a vivere negando ogni diritto ai contadini, oppressi dalla miseria, tormentati dalla fame e dalla disperazione. Aveva ascoltato i nostalgici dell’antico regime e si era lasciato suggestionare da nuove promesse.
Cosimo Manieri, merciaiolo, questa era la sua attività, era nato a Nardò il 5 gennaio 1843, da Orazio, calzolaio e da Teresa Re, filatrice, abitanti in Nardò alla strada Misericordia. Come vedremo dalla sentenza, a causa della sua età al tempo della commissione dei fatti (era minorenne), e per essersi presentato di sua spontanea volontà alle autorità, fu condannato a venti anni di lavori forzati e a cinque anni di sorveglianza speciale. Espiata la pena, all’età di quarantacinque anni sposa, il 15 novembre del 1888, Maria Addolorata Martignano di anni 29 contadina di Nardò. Da questa unione Il Manieri, infine, muore all’età di 73 anni a Nardò il 23 luglio 1916, nella casa sita in via S.Antonio.
Nel 1869 viene celebrato davanti alla Corte d’Assise di Trani sedente in Bari un processo contro 22 imputati che avevano scorrazzato soprattutto nella provincia di Brindisi e nel vasto territorio dell’Arneo seminando terrore e provocando uccisioni, ferimenti, ricatti furti e incendi in diverse masserie ed anche in alcune città: Alberobello, Grottaglie, Erchie e Carovigno.
I delitti loro ascritti sono: “associazione di malfattori ad oggetto di delinquere contro le persone e contro le proprietà”, estorsioni, grassazioni, furti, uccisione di bestiame, complicità negli omicidi di alcune Guardie Nazionali, incendi di raccolti e taglieggiamenti vari.
Davanti alla Corte compaiono capibanda e gregari, alcuni di essi erano stati catturati dalle forze dell’ordine, altri si erano spontaneamente presentati ai tutori della legge nella convinzione di poter beneficiare di quei vantaggi previsti dalla legge.
Dopo la conclusione dell’intero dibattimento, viene emesso il cosiddetto “Dispositivo”. Segue la sentenza della Corte d’Assise di Trani sedente in Bari.
Ecco il documento che si trova depositato insieme agli altri, nell’Archivio di Stato di Bari.
In nome di Sua Maestà Vittorio Emmanuele Secondo
per grazia di Dio e per volontà della Nazione
Re d'Italia
L'anno mille ottocentosessantanove il giorno diciotto giugno in Bari
La Corte di Assise di Bari […]
Visti gli atti relativi alla causa ed il verbale di pubblico dibattimento
Visto il verdetto de Giurati, dal quale risulta che gli accusati
1° Oronzo del fu Domenico Barco soprannominato Bellofatto di anni 34 contadino nato e domiciliato in Carovigno
2° Vito del fu Francesco Blasi di anni 31 contadino di Ostuni
3° Antonio Campana d'ignoti genitori di anni 34 trainante di Latiano
4° Antonio Cascone di Luigi bracciale nato in Piemonte di Gragnano il 2 Luglio 1848 e domiciliato a Galatone
5° Francesco del fu Angelo Clemente soprannominato sfascia Cantina di anni 29 contadino di Palagianello
6° Pasquale del fu Pietro Coppola cuoco di anni 31 nato in Napoli domiciliato in Sanarica
7° Antonio Raffaele Esposito di padre incerto contadino nato in Ceglie di Ostuni il 14 Giugno 1843 e quivi domiciliato
8° Giuseppe Greco figlio di Vito detto il figlio di Vituddo contadino nato in San Vito dei Normanni il 28 Luglio 1842 e quivi domiciliato
9° Francesco Salvatore di Belisario Laveneziana di anni 31 contadino di Carovigno
10° Cosimo di Orazio Manieri merciaiuolo nato in Nardo' il 5 Gennaio 1843 e quivi domiciliato
11° Giuseppe del fu Pasquale Marinuzzi di anni 29 contadino di Palagianello
12° Marino del fu Giuseppe Marsella di anni 32 contadino nato e domiciliato in Massafra
13° Angelo di Vito Giuseppe Marulli di anni 30 contadino di S. Vito de Normanni
14° Giuseppe Tommaso Micelli fu Michele di anni 49 fabbro ferraio di Torre Santa Susanna
15° Vincenzo Raffaele di Prezzo del fu Angelo detto il cordaro di Mesagne di anni 30 contadino nato in San Donaci, domiciliato in Mesagne
16° Luigi del fu Raffaele Sozzi di anni 31 contadino di Novoli
17° Giovanni del fu Domenico Spadafina di anni 32 calzolaio di Palo del Colle
18° Antonio del fu Rosario De Tommaso di anni 30 contadino di Carmiano
19° Pasquale di Paolo Trisolini detto Paolone di anni 42 contadino di Palagianello
20° Giuseppe del fu Domenico Valente detto Nenna-Nenna di anni 36 trainante di Palagianello [residente a Carovigno]
21° Francesco Paolo Valerio fu Saverio detto il Cavalcante di anni 33 trainante di Gravina
22° E finalmente Angelo del fu Cataldo Ventrella di anni 30 contadino di Ceglie di Ostuni
Sono colpevoli
1° di associazione di malfattori per aver negli ultimi mesi del 1862 fatto volontariamente parte di una associazione di malfattori riuniti nel Circondario di Brindisi in numero non minore di cinque ad oggetto di delinquere contro le persone e contro le proprietà/ articoli 426, 429 Codice penale
Ed inoltre gli accusati Valente e Campana
2° Di complicità necessaria nei tentativi di estorsione commessi in associazione di malfattori a danno de seguenti individui, cioè
(A) del Signor Pasquale Perez nel 10 settembre 1862 nella Masseria Cuoco
(B) del Signor Francesco De Castro la sera del 2 ottobre 1862 nella masseria Masciulli
(C) delle Signore Innocenzia e Chiara Perez il 3 ottobre 1862 nella Masseria Lucci
(D) del Signor Antonio Murri il 29 ottobre 1862 nella Masseria Specchia
(E) del Signor Vincenzo De Nitto nell'ottobre e novembre 1862 nella Masseria San Nicola
F) del Signor Francesco Carluccio nel 29 ottobre 1862 nella masseria Barone, / articoli 103,104,601, e 430 Codice penale,
3° Imputati Campana, Valente e di Prezzo di complicità necessaria nel tentativo di estorsione in danno del Sig Giuseppe Catanzaro, seguita anche in associazione di malfattori nell'ottobre del 1862 / articoli testè citati
4° Il detto Campana come pure gli altri accusati Barco, Blasi, Clemente, Greco, Laveneziana, Manieri, Marsella, Marulli, Sozzi, Spadafina, e Valente di complicità necessaria nella grassazione
a) di quattordici fucili militari che esistevano nel Corpo di Guardia Nazionale di Carovigno
b) di due selle e due pistole ed altri oggetti in danno di Renato Cavallo
c) di una giumenta in danno di Giuseppe Brandi
Quali tre reati furono commessi in Carovigno in associazione di malfattori il 21 novembre 1862
d) di diversi oggetti nella Masseria Cuoco a danno di Pietro Cavallo
e) di una giumenta ed altri effetti a danno di Pasquale Morleo nella Masseria Sole
f) di una giumenta nella masseria Mosca a danno di Ferdinando Nicoli.
E questi tre ultimi reati consumati nel 23 novembre 1862 ugualmente in associazione di malfattori / articoli 103, 104, 596 n.4° 597 n. 4° e 430 Codice penale
5° il ripetuto Campana e Valente di complicità necessaria consumate sempre in associazione di malfattori a danno de i seguenti individui, cioè
a) un cavallo nella masseria Cuoco in danno del Signor Pasquale Perez la notte dal 3 al 4 ottobre 1862
b) un altro cavallo nella masseria suddetta nel 21 detto mese di ottobre in pregiudizio di Andrea Melpignano
c)una giumenta ed altri oggetti al signor Francesco de Castro nella masseria Masciullo il 3 ottobre 1862
d) un fucile nel due detto mese a danno di Giuseppe Catanzaro nella Masseria Spada
e) due cavalli formaggio ed altro nel 21 ripetuto mese di ottobre a danno dello stesso Catanzaro nella masseria Restinco
f) del pane e dei commestibili, un fucile, due muli ed altri oggetti nella masseria Specchia durante l'ottobre ed il novembre 1862 in pregiudizio di Antonio Murri
g) una giumenta a danno del Sig. Vincenzo De Nitto nell'ottobre del 1862 in tenimento di Mesagne articoli sopra citati
6° il di Prezzo di complicità necessaria nelle due testè indicate l'una cioè a danno di Catanzaro nella masseria Restinco il 21 ottobre 1862 e l'altra nella masseria Specchia durante l'ottobre ed il novembre di detto anno in pregiudizio di Antonio Murri / articoli invocati di sopra
7° il Campana, Valente, di Prezzo, Trisolino, Spadafina, di Tommaso e Marinuzzi di ribellione mediante attacco con violenza e che di fatto commesso in associazione di malfattori contro la forza pubblica in servizio (Carabinieri Reali e Guardia Nazionale di Cellino e San Pietro Vernotico) vicino la masseria Santa Teresa in tenimento di Brindisi il 23 Ottobre 1862, nell'atto che la forza stessa agiva per la esecuzione delle leggi e degli ordini della pubblica autorità, e di complicità accessoria negli omicidi volontari delle Guardie Nazionali Cristofaro Miglietta, Vincenzo Pecoraro e Giuseppe Mauro, quali omicidi furono la conseguenza immediata della ribellione sopra indicata /articoli 103,104,247, 533 n. 4° codice suddetto.
8° Imputati Campana, Valente, Barco, Blasi, Clemente, Cascone, Greco, Laveneziana, Manieri, Marsella, Marulli, Trisolino, Sozzo, Spadafina, Valerio e Ventrella di altra simile ribellione consumata anche in associazione di malfattori con violenza e che di fatto contro la forza pubblica in servizio (Carabinieri Reali e Guardia Nazionale di San Vito) nell'atto che questa agiva per la esecuzione delle leggi e degli ordini della pubblica autorità e di complicità necessaria nell'omicidio volontario del Guardia Nazionale Michele Catamerò, quale omicidio fu la conseguenza immediata della ribellione suddetta. Reati consumati nella masseria Badessa tenimento di San Vito il 21 novembre 1862 /articoli testè citati.
9° Tutti i sedici individui testè indicati di complicità necessaria nel tentativo di estorsione commesso in associazione di malfattori in danno di Giuseppe de Biase il 23 novembre 1862 con sequestro della persona di lui, e di complicità necessaria nell'omicidio volontario del detto de Biase, avvenuto nel 25 detto mese ed anno in conseguenza delle violenze che gli furono usate durante il sequestro / art. 601, 603, 533 n. 4 430 codice ripetuto.
10° Lo Spadafina di complicità necessaria nel tentativo di estorsione commesso in associazione di malfattori in danno di Domenico Brandi il 9 settembre 1862 con sequestro della persona di Vincenzo Brandi figliolo del detto Domenico / (art. 103,104, 601, 430 codice detto)
11° Il Micelli di complicità necessaria nelle[azioni] commesse il 23 novembre 1862 a danno di Pietro Cavallo, Pasquale Morleo e Ferdinando Nicolì in associazione di malfattori come si è dichiarato di sopra (art. 103,104,596, n. 4 597 n. 4 430 codice stesso)
12° Finalmente l'Esposito di complicità necessaria nel tentativo di estorsione a danno del Signor Francesco Lupoli commesso in associazione di malfattori il 27 dicembre 1862, e di complicità necessaria nella grassazione di due fucili, un orologio, denaro ed altri oggetti in danno dei fratelli Pietro ed Oronzo Agostinelli il 4 Dicembre 1862 e dell'altra grassazione di diversi oggetti in pregiudizio di Giuseppe Ligorio il giorno immediatamente consecutivo, entrambe consumate pure in associazione di malfattori.
Con circostanze attenuanti per gli accusati Barco, Cascone, Coppola, Laveneziana, Marulli, di Prezzo, Sozzo, Di Tommaso e Trisolino.
Intesa la requisitoria del Pubblico Ministero nell'applicazione della legge con la quale ha chiesto condannassi gli accusati cioè Barco, Blasi, Campana, Clemente, Laveneziana, Marinuzzi, Marsella, Marulli, di Prezzo, Sozzi, Spadafina, Di Tommaso, Trisolini, Valerio e Ventrella ai lavori forzati a vita, Greco e Manieri ai lavori forzati per anni venti per ciascuno, Micelli ai lavori forzati per anni dieci, Esposito e Cascone ad anni dieci di reclusione per ciascuno e finalmente Coppola alla stessa pena di reclusione per anni cinque. Dichiarando comprese nella presente condanna tutte le altre pene già avute da taluni di essi dalle Corti di Assise di Taranto, di Bari e Lecce sia con sentenza irrevocabile che con sentenza .in Cassazione . Tutti alle pene accessorie ai termini degli articoli
426, 430, 247, 248, 265, 533 n° 4, 596, 597, 600,
601,602,98,654,552,534,562,569,103,104,107,108,117,654,90 Codice penale, 568,569 procedura penale
Tenute presenti le deduzioni dei difensori Signori Vincenzo Scivittaro, Domenico Cifarelli, Vito Giustiniani, Michele Mironghi, Tommaso Ferrieri Caputi, e Fortunato Salsi e quelle degli accusati, ai quali si è accordata la parola in ultimo luogo.
Poichè secondo le definizioni di sopra enunciate ai sensi degli articoli che si sono invocati le ribellioni con omicidio contro la forza pubblica in Santa Teresa e Badessa nonché l'omicidio del Di Biase avvenuto per effetto di violenze usategli durante il sequestro sarebbero tutti con la pena di morte, la quale perciò dovrebbe essere pronunciata contro tutti gli accusati esclusi soltanto il Coppola, l'Esposito ed il Micelli
Poichè da detta pena bisogna discendere di un grado per tutti coloro che hanno conseguito le attenuanti come si è dichiarato di sopra (art. 684 codice penale).
Poichè di un altro grado è da discendersi per tutti quelli che volontariamente si sono costituiti in potere della giustizia, cioè per gli accusati Barco, Campana, Greco, Laveneziana, Manieri, Marulli, Ventrella, di Prezzo e Clemente ai termini dell'articolo terzo della legge del 15 agosto 1863.
Poichè gli accusati Greco e Manieri all'epoca del reato avevano superato gli anni diciotto ma non compiuti ancora gli anni di come del pari l'accusato Cascone aveva sorpassato gli anni quattordici ma non raggiunte ancora gli anni diciotto per lo che per i due ….... dei detti luogo al disposto dell'articolo 91 codice penale, facendo cioè a loro riguardo la diminuzione di un altro grado della pena dovuta, per Cascone debbe applicassi l'articolo 90 n. 1 e 2° dello codice stesso.
Poichè tutti gli altri accusati ai quali non sarebbe dovuta alcuna diminuzione per effetto dell'attuale verdetto riportarono nel primo giudizio condanna di lavori forzati a vita, ond'è che nel senso dell'articolo 678 procedura penale non possono oggi riportare una condanna più grave.
Poiché lo stesso ragionamento è a farsi per gli accusati Micelli ed Esposito, ai quali nel minimo dovrebbe essere applicata una pena maggiore di quella di dieci anni di lavori forzati e dieci anni di reclusone cui rispettivamente furono condannati nel primo giudizio.
Poichè l'accusato Coppola si trova già con sentenza profferita dalla Corte di assise di Trani del 19 aprile 1868 condannato alla pena della reclusione per associazione di malfattori e non è quindi giusto che subisca per lo stesso reato una seconda condanna
Visti i detti articoli, nonché gli articoli 20,21,22,23,44,45,75 Codice penale, 568, 569 procedura penale de quale si è dato lettura
CONDANNA
Vito Basi, Antonio Campana, Francesco Clemente, Giuseppe Marinuzzi, Marino Marsella, Luigi Sozzo, Giovanni Spadafina, Antonio di Tommaso, Pasquale Trisolini, Giuseppe Valente, Francesco Paolo Valerio ed Agelo Ventrella alla pena de lavori forzati a vita, alla perdita di dritti politici, alla interdizione patrimoniale.
Condanna Oronzo Barco, Giuseppe Greco, Francesco Salvatore Laveneziana, Cosimo Manieri, Angelo Marulli e Vincenzo Raffaele de Prezzo alla pena di lavori forzati per la durata di anni venti per ciascuno, alla interdizione di pubblici uffizi ed alla sorveglianza speciale della Pubblica Sicurezza per altri anni cinque dopo espiata la pena principale.
Condanna Giuseppe Micelli, alla stessa pena de lavori forzati per anni dieci. Antonio Raffaele Esposito a dieci anni di reclusione ed Antonio Cascone a sette anni della detta pena di reclusione; tutti e tre alla interdizione de pubblici uffizi e a quella patrimoniale durante la pena, ed alla sorveglianza speciale della Pubblica Sicurezza per altri anni quattro per ciascuno, dopo espiata la pena principale.
Dichiara non farsi luogo a nuova applicazione di pena per l'accusato Coppola
Condanna tutti solidalmente ai danni-interessi a carico delle parti rispettivamente lese ed anche solidalmente al ritiro delle spese in favore dell'Erario dello Stato.
Ordina che la presente sia stampata affissa e pubblicata in questa Città, nei Capoluoghi de Comuni in cui furono commessi i crimini ed in quelli del domicilio de condannati.
Fatta e pubblicata oggi
. CONCLUSIONI IN SINTESI
Come apprendiamo dalla lettura degli atti processuali e delle sentenze di condanna, il grosso delle bande brigantesche nel nostro territorio era costituito dai contadini e dai renitenti alla leva: il contadino meridionale, facendosi bandito, non intendeva esprimere la sua fedeltà ai Borbone, piuttosto la sua avversione ai nuovi regnanti, dare sfogo alla sua delusione e disperazione. La sua fu una guerra civile terribile, senza risparmio di crudeltà e di efferatezze, complice non invitato il suo analfabetismo completo.
La repressione, che precede e segue l’approvazione della legge Pica da parte dello Stato Italiano, che alla fine riuscì a debellare il brigantaggio, non fu da meno, attuata senza riflessione e senza misericordia dagli ufficiali sabaudi, gentiluomini istruiti e raffinati. In quel momento il nuovo Stato perdette l’occasione di essere considerato uno stato liberale.
Occorre discutere ancora sull’Unità d’Italia e su alcuni personaggi che l’hanno realizzata. L’Unità d’Italia doveva essere fatta, molti secoli lo aspettavano, ma non come è stata imposta: invasione paramilitare, stato d’assedio, processi rapidi seguiti dalle esecuzioni sommarie, requisizioni, grassazione fiscale, arruolamento coatto, soprattutto con l’idea di origine squisitamente massonica di una supremazia concettuale e morale nei burocrati piemontesi.
Sotto i Borbone non si viveva bene, ma l’unificazione che è stata realizzata ci ha fatto precipitare in un baratro da dove non usciremo più. La questione meridionale esisteva prima dell’Unità e da essa è stata aggravata.
Vogliamo discutere dei vecchi borbonici e sui nuovi liberali, su alcuni molto audaci, protetti dal nuovo stato italiano, che non hanno fatto che usurpare i beni demaniali ed acquistare a poco prezzo gli immobili confiscati alla Chiesa e agli ordini monastici, le terre già promesse ai contadini meridionali.
Il conte di Cavour, Presidente del Consiglio, muore nel mese di giugno del 1861. Sul letto di morte, disse a proposito dei meridionali: È colpa di quel furfante di Ferdinando.
Chi scrive non può condividere il giudizio partigiano del conte sulla persona del sovrano Borbone, ma erano FURFANTI anche i re Savoia, e coloro che nel passato prossimo hanno rappresentato, e presentemente rappresentano, la Repubblica che è seguita.
Da quando è nato questo Stato Italiano, quante verità ci hanno nascosto. Perché solo la VERITA’ rende un popolo sovrano e libero.
La Verità ha fatto parte così rare volte delle vicende spesso chiaroscurate di questo paese, di tutto il paese, ricco di figure chiamate eroi, nella realtà personaggi prezzolati dall’offerente migliore, o dal meno democratico, monarchi o presidenti accuditi di stuoli di pennivendoli tanto solleciti a ripulire i loro fatti con le piaggerie più agili e gloriose.
Un doveroso ringraziamento a Salvatore Calabrese e Enrico Ciarfera per la ricerca sugli atti di Stato Civile del comune di Nardò ed altre notizie, a Salvatore Leo per la trascrizione dei documenti dell’Archivio di Stato di Bari e a Valentino Romano per alcuni suggerimenti.
Bibliografia essenziale:
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L. TUCCARI, Il brigantaggio nelle province meridionali dopo l’Unità d’Italia(1861-1870), Lecce 1982.
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