L’angiolo fugace della letteratura italiana. Sergio Corazzini, Io non sono un poeta
Il poeta fanciullo nacque a Roma il 6 febbraio 1886 da famiglia agiata che, per gli sciagurati vizi paterni, finì in miseria; a questa si aggiunse la tubercolosi che, ironia della sorte, risparmiò solo il padre. Il nostro poeta, insieme al fratello Gualtiero, compì gli studi elementari a Roma e la prima ginnasiale a Spoleto ma dovette interrompere gli studi per impiegarsi presso la società di assicurazioni “La Prussiana”, proprio a causa del dissesto finanziario della famiglia.
A partire dal 1902 iniziò a collaborare, scrivendo poesie dialettali e in italiano, con alcune gazzette (Marforio, Fracassa, Gran Mondo, Vita letteraria). La sua prima raccolta di poesie è del 1904, Dolcezze. Fecero seguito i volumi L'amaro calice (1905) e Le aureole (1905). Un suo dramma di un solo atto, Il traguardo, fu rappresentato senza successo al teatro Metastasio di Roma nel maggio del 1905. Alla fine dello stesso anno, il poeta fondò la rivista "Cronache latine" (che però ebbe breve vita a causa di problemi economici) insieme agli amici del Caffè Sartoris e del Caffè Aragno, presso i quali avevano stabilito dei cenacoli letterari. Minato dalla tubercolosi, il giovane poeta nella primavera del 1906 si recò a Nocera Umbra per cercare un rimedio al suo male. Dopo un breve quanto illusorio miglioramento, fu costretto, a metà luglio, a fare ritorno a Roma. Fu in questo periodo che vide la pubblicazione il volumetto Piccolo libro inutile, contenente poesie di Corazzini e del suo amico Alberto Tarchiani. A causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute fu ricoverato in autunno nel sanatorio di Nettuno. Durante questo inutile quanto doloroso soggiorno furono pubblicate Elegia e la sua ultima raccolta poetica, Libro per la sera della domenica. Nella primavera del 1907 ritornò a Roma; qui, il 17 giugno del 1907, a soli ventuno anni, Corazzini morì.
Le maggior parte delle poesie, 63 in tutto, del poeta sentimentale, come lui stesso si proclamò, sono oggi pubblicate con il titolo uniforme di “Io non sono un poeta” a cura di Alessandro Melia, per la collana “Interno Novecento”, edita da Interno Poesia Editore di Latiano. Le due poesie riportate alla fine sono tratte da questa raccolta di Interno Poesia.
Corazzini ha affascinato e affascina generazioni di lettori; eppure visse e scrisse poco; tutta la sua attività poetica si racchiude in soli tre anni (dal 1904 al 1906). È indubbio che il “mito” dello sfortunato, dolce e malinconico poeta (famosa la sua bontà d’animo), morto di tubercolosi nel fiore degli anni, ebbe inizio proprio con i ricordi e le testimonianze degli amici intellettuali che lo frequentarono a Roma (Gino Calza Bini, Fausto Maria Martin, Alberto Tarchiani, Pietro Paolo Trompeo). A questo aggiungiamo la miseria causata dal padre egoista e vizioso, l’opposto della madre mite e remissiva, la malattia terribile e senza scampo, l’abbandono degli studi e, ancora adolescente, la costrizione a sbarcare il lunario (metà dello stipendio glielo requisiva il padre) come impiegato di assicurazioni in un ufficio-sgabuzzino. Tutto ciò, però, non basta a conferire un alone di leggenda ad un poeta. Occorre la produzione poetica, e questa è autentica, senza alcun artificio letterario e con perfetta coincidenza tra vita e poesia.
I suoi versi raccontano l’approssimarsi della morte. La sua, la nostra.
Sui libri di scuola è giustamente scritto che Corazzini fu antesignano della poesia crepuscolare; anzi, a ben vedere i cenacoli letterari romani, legati al crepuscolarismo, furono tali proprio per la presenza di Corazzini. Lui fu il cuore che tenne insieme tutti i poeti orbitanti attorno al movimento crepuscolare della capitale. I toni dimessi, le atmosfere languide, i luoghi tristi e desolati, i sentimenti di malinconica dolcezza tipici della poesia crepuscolare sono presenti nella poesia di Corazzini che, come testimoniato dai suoi stessi amici, fu un grande appassionato di scrittori simbolisti ed intimisti francesi ma dai quali non derivò una vera e propria lezione formale. Va subito chiarito che la poesia crepuscolare si diffuse in Italia fra il 1905 e il 1915, quando cominciarono a venir meno le suggestioni poetiche dannunziane e cominciarono ad affermarsi un senso di profonda sfiducia e di ironico pessimismo nei confronti della vita. Corazzini, autenticamente crepuscolare, si trovò, suo malgrado, al confine tra la tradizione letteraria di fine Ottocento ed una nuova tradizione che senza dubbio intuì ma della quale non fece in tempo a comprendere e padroneggiare pienamente le più profonde istanze espressive. Nonostante ciò, la sua poesia tende ad essere intensamente lirica, diretta, autobiografica, frammentaria. L’angiolo (come lo definì Palazzeschi) fugace della nostra letteratura partecipò alla vita segreta degli oggetti quotidiani, non solo quelli del passato, e lo fece con intensità e profondità empatica, identificandosi, con umiltà ed in silenzio (quel silenzio che tanto amava e cercava), con la materia di cui sono composti gli oggetti stessi che divengono, così, messaggeri del pensiero e dell’anima del poeta.
I termini che, con maggiore frequenza, troviamo nella sua poesia sono cuore e anima, il primo sede del sentimento, il secondo dell’intuito. Corazzini fu contrario alla poetica vitalistica ed energetica allora dominante, soprattutto negli ambienti nazionalistici, mentre precoce furono in lui la vocazione alla malattia mortale, sempre presente nella sua vita e nella sua poesia, gli slanci di adolescente e languida sensualità, un’intensa pietà religiosa, derivatagli dalla madre e da un cattolicesimo formale che allora si respirava dappertutto nella Roma decadente tra Otto-Novecento.
Corazzini non fece in tempo a manifestare quella coerenza di stile e contenuti che sono l’ossatura delle opere mature di ogni scrittore ma seppe comunque incanalare la sua poesia in direzione di una nuova intimità e un “versoliberistico” che lo portarono alla sostanziale rottura con la poesia precedente e del primo Novecento. Dopo di lui, la poesia abbandonerà presto l’esperienza crepuscolare.
Va precisato che il verso libero non fu un’invenzione dei crepuscolari; lo stesso D’Annunzio aveva assunto il verso libero dai francesi. Solo che in Corazzini il verso libero appare già da subito destinato a sostituire i metri regolari, anche se fino all’ultimo, insieme alle nuove esperienze del verso libero, il poeta continuò ad usare i modi della canzonetta e del verso sciolto.
Riguardo i contenuti, l’idea cardine della sua poesia è il presentimento della morte, a cui continuamente e remissivamente si abbandona e, contemporaneamente, la rifuta, la allontana, spinto dal desiderio naturale di vivere. In altri poeti del tempo questo tema fu il riflesso di una moda letteraria, in Corazzini fu una dimensione sincera e necessaria della sua stessa vita. Fra il pianto delle cose ed il pianto della sua povera anima smarrita, il povero fanciullo malato non può o non sa trovare un equilibrio e una rispondenza rasserenatrice.
Da Io non sono un poeta, a cura di Alessandro Melia, Interno Poesia Editore 2021, proponiamo due poesie di Corazzini, Il mio cuore, presente in Dolcezze, e Desolazione del povero poeta sentimentale, presente in Piccolo libro inutile.
In Dolcezze si avverte il Pascoli. La poesia Il mio cuore apre un nuovo modo di poetare e si avverte, ma in modo del tutto originale nella descrizione delle immagini che sono rese con maggiore forza, la lezione dei poeti francesi conosciuti da Corazzini. Nei versi finali della poesia, si avverte tutto il male di vivere del poeta e la perfetta coincidenza tra vita e poesia. Come abbiamo visto, sia il tema che l'immagine del cuore, forma e contenuto coincidono, sono frequenti nella poesia di Corazzini. Il sonetto è di versi settenari, e si scorge chiaramente, ma capovolto, il modello formale dannunziano del Poema paradisiaco.
Il mio cuore
Il mio cuore è una rossa
macchia di sangue dove
io bagno senza possa
la penna, a dolci prove
eternamente mossa.
E la penna si muove
e la carta s'arrossa
sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà
uno schianto stridente...
...e allora morirò.
La sua poesia più conosciuta è senza dubbio Desolazione del povero poeta sentimentale; il poeta non è più un essere privilegiato, è solo “un piccolo fanciullo che piange”. In realtà, Corazzini sa bene di essere un poeta, chi legge deve smentirlo, che sia il fratello o la sorella o uno sconosciuto lettore. È però preoccupato, perché oltre alla continua preoccupazione della morte a cui si sente destinato a causa della malattia, si preoccupa anche di non riuscire a fare in tempo ad essere riconosciuto come poeta. Attaccato tenacemente alla vita, deve constatare, con disperazione, che tutto è destinanto a scomparire. L’amen conclusivo della poesia è una estrema invocazione di chi sa che sta per morire e, per l’ultima volta, ascolta il suo cuore.
Desolazione del povero poeta sentimentale
I
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta,
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni:
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d'amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non meravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l'aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco, a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.
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