tutti pubblicati nel 1920, che vedono come autore Guido Da Verona, «l’ebreo fascista», mediando il titolo di una recente biografia di Enzo Magrì, pubblicata da Luigi Pellegrini Editore. La casa editrice calabrese, in questo scorcio di nuovo secolo sta proponendo alcune opere di quell’autore, da alcuni critici inserito in ciò che viene definita “paraletteratura” e da altri in quel fenomeno chiamato “letteratura di consumo”: un fenomeno decisamente nuovo e proprio del Novecento.
Quest’autore (1881-1939) inizia a conoscere la sua fortuna a partire dagli anni della Prima guerra mondiale, toccando l’acme nel Ventennio (un successo contrastato, purtuttavia un successo), fino al suicidio nel 1939, se fu veramente così. Già, perché c’è chi ha scritto che egli fosse diventato «intellettuale inviso al regime» e quindi «emarginato dopo l’approvazione delle leggi razziali» - egli infatti, aveva un cognome di città spiccatamente ebreo e il “Da” lo aveva aggiunto lui successivamente all’esordio letterario – e c’è chi, proprio come il sopra citato recente biografo, ha affermato che «lo scrittore morì, in realtà, per l’aggravarsi di un’angina pectoris». Il «D’Annunzio delle dattilografe e della manicure», lo definì Adriano Tilgher. Il «capostipite del romanzo d’appendice e della letteratura erotica», leggiamo nella più consultata enciclopedia libera on line. Nell’unico rigo che nel corso di un’analisi sulla letteratura italiana “Civiltà cattolica” gli dedicò, nel 1921, parlò esplicitamente del «sordidume per es. di un Guido Da Verona». E “Omaggio al sudiciume” fu il titolo dell’epigramma che il cattolico pugliese Michelangelo Perniola compose nel 1931 prendendo spunto da quanto scrisse, il 10 maggio di quell’anno, “Il Popolo di Roma”: «Il Capo del Governo ha ricevuto lo scrittore Guido da Verona, che gli ha fatto omaggio della raccolta completa delle sue opere». E Perniola: «O Mussolini, alla grandezza vostra/ la consacrazïone ebrea mancava./ Or Guido da Verona alto dimostra/ quanto vuol grande quest’Italia ignava!/ La vuol paragonare all’India sacra/ che i suoi re con lo sterco unge e consacra».
Queste note avverse sembrano quasi costruire un mostro, ma non è così ed ecco perché, invece di «liquidare» i quattro libri custoditi nella «Granafei» in un’unica nota, ci si soffermerà libro per libro, non fosse altro che per la rinnovata, attuale attenzione per i fenomeni letterati dei primi decenni del XX secolo, con Giovanna De Angelis, ad esempio, che nel 2004, delineando con Stefano Giovanardi una “Storia della narrativa italiana del Novecento, vol. I (1900-1922)” (Feltrinelli 2004) e curando il capitolo su «La paraletteratura: Guido Da Verona, Liala, Pitigrilli», affermò con chiarezza: «In Guido Da Verona troverà insomma la sua prima e più compiuta realizzazione, un filone narrativo “inedito”, a metà strada tra le svenevolezze del romanzo rosa e il più ridondante egotismo dannunziano: un’estrema, grottesca propaggine dell’estetismo nostrano, che qui tuttavia finirà per estenuarsi ed esaurirsi, contribuendo così all’acquisizione di nuovi e più originali territori espressivi».
Nella nostra biblioteca civica “Granafei”, sono quattro i titoli custoditi e che ci interessano: «L’amore che torna» (prima edizione nel 1908, coll. VII L 24 ); «Colei che non si deve amare» (prima ed. 1911, coll. III H 087), «La donna che inventò l’amore» (prima ed. 1915, coll.VII L 22) e «Sciogli le trecce, Maria Maddalena» (prima ed. 1920, coll. III H 084). Tutte le edizioni di queste opere conservate a Mesagne sono state stampate nel 1920 e provengono da diversi fondi librari. Iniziamo da «L’amore che torna», romanzo nel quale l’autore inizia a sperimentare il criterio autodiegetico, che poi prevarrà nei romanzi successivi e di maggior successo, con il narratore che è il protagonista autentico della storia da lui stesso raccontata. Ed è una storia che si dipana tra parole non dette e descrizioni ridondanti, ai limiti dell’«immaginifico», giusto per richiamare un clima, che lascia comprendere e rende visibile la relazione con D’Annunzio. E qui sovvengono le parole, che poco più di dieci anni addietro furono una sorta di leit-motiv, quando a Bruxelles, Luciano Curreri curò un convegno internazionale su «D’Annunzio come personaggio dell’immaginario italiano ed Europeo»: «Alla penuria di nuovi titoli sopperisce allora la pletore degli imitatori o di coloro che semplicemente sfruttano l’aura creatasi attorno a D’Annunzio: il binomio “erotica-eroica” si scinde nei volumi, rispettivamente, di Guido Da Verona e di Guido Milanesi…». Ed insomma, quando per i titoli della casa editrice «Baldini, Castoldi & C.» vide la luce «L’amore che torna», l’autore era ancora “Guido Verona”; annunciava di aver pubblicato il romanzo «Immortaliamo la vita!», due raccolte di liriche «I Frammenti d’un Poema» e «Bianco Amore» ed aveva in preparazione un «Poema delle maschere» dal titolo «L’Alhambra di Felicità». Ed ecco in esergo “Placet, si vis, domine”, che scopriremo essere il motto della casata dei protagonisti e poi: «“Dormite?” ella domandò piano, apparendo sotto l’arco di una tenda leggiadramente appesa…». Da quell’esordio del 1908 alla copia che è in biblioteca, L’amore che trona avrà 6 edizioni, fino al 1919 con «Baldini, Castoldi & C.», mentre nel 1920 ci saranno due edizioni con Bemporad e l’ottava è proprio quella che è conservata a Mesagne, con la nona edizione che vedrà la luce nel 1931 (Società editrice Unitas, Milano) ed una postuma, per Dall’Oglio di Milano nel 1953. La copia mesagnese insomma è il punto più in alto dell’ideale asticella misuratrice del successo dell’autore. È sintomatico, peraltro, che essa fosse appartenuta alla biblioteca di una locale famiglia borghese (leggiamo come precedente appartenenza il timbro “Biblioteca Argentieri, serie A, Numero 453”) e qui sovvengono le osservazioni sulla nascita delle società di massa e sulla letteratura ad essa più vicina, fatte a tal proposito da Giuseppe Petronio nel suo amplissimo studio su «L’attività letteraria in Italia». «Il
fatto però è che “borghese” negli anni Venti e Trenta non significò più ciò che aveva significato fino allora. Basterà un esempio solo, letterario.
La letteratura “di consumo” del primo Novecento (Luciano Zuccoli; Guido da Verona; certo teatro boulevardier) prospettava ancora un’Italia divisa in due strati: sopra, aristocratici, grossi borghesi, arrampicatori sociali saliti fino a esso; sotto, borghesi, artigiani, operai, contadini, confusi in un solo concetto e termine di “popolo”. Una rappresentazione certo tendenziosa, che tradisce lo snobismo degli autori, ma che aveva pure una sua base reale, nel senso almeno che i lettori “borghesi” e “piccoloborghesi” cercavano ancora i propri modelli di vita e di comportamento e i propri paradisi illusori in un mondo di saloni e teatri, gentiluomini e dame, “superuomini” e aspiranti superuomini. Ma più tardi gli stessi scrittori passarono dalla rappresentazione del “gran mondo” a quella di ambienti borghesi e del “demimonde”: segno che il pubblico cercava i suoi eroi, ora, non più fra gli aristocratici ma nell’alta borghesia, non più fra le dame ma fra le signore borghesi…» E proprio in quegli anni – ma in biblioteca non c’è - Guido Da Verona scrisse anche una «Lettera d’amore alla sartine d’Italia». E Petronio: «…le sartine, dunque, fanno pubblico, e meritano che si scriva per esse».