I due dipinti della Beata Vergine Addolorata conservati a Mesagne

Domenico Ble Settembre 30, 2020 2666

La Città di Mesagne è ricca di tesori d'arte di natura sacra e no. Nell'aprile dello scorso anno ho avuto il piacere di studiare e presentare presso la Chiesa di San Leonardo il dipinto dell’Addolorata, realizzato sul finire del XVIII secolo, conservato nel Museo d’Arte Sacra di Mesagne. A questa tipologia di dipinto va aggiunta l'omonima tela, ascrivibile allo stesso periodo e conservata nella Chiesa del SS. Crocifisso a Mesagne, anch'essa di autore ignoto.

addolorataLa Vergine Addolorata del Museo d'Arte Sacra è rappresentata a mezzo busto e leggermente rivolta di tre quarti verso destra. Ha il braccio sinistro poggiato su un basamento, le mani incrociate e il capo rivolto verso l’alto. Un pugnale le trafigge il petto. La figura esce gradualmente dall’oscurità e viene delicatamente avvolta dalla luce proveniente da sinistra, elemento questo, che modella i lineamenti del corpo e definisce le pieghe delle vesti. I particolari, che evidenziano il momento di grande tristezza, non sono trascurati. Osservando attentamente il volto della Vergine si possono notare le lacrime che fuoriescono dagli occhi. L’autore potrebbe essere un pittore salentino, conoscitore delle grandi novità pittoriche del Settecento. Dopo una approfondita ricerca è deducibile che il modello ispiratore per la realizzazione dell’opera è la Mater Dolorosa di Francesco Solimena, capolavoro assoluto del maestro campano, datato 1723 e conservato a Dresda presso la Gemäldegalerie Alte Meister. Le analogie con questa tela sono numerose: la posa, il capo rivolto verso l’alto e l’incrocio delle mani. Cambiano i colori delle vesti: nella tela di Mesagne sono più opachi e scuri, mentre nel dipinto del Solimena sono più luminosi. La Vergine del dipinto mesagnese è trafitta dal pugnale, particolare assente nella tela di Dresda. Nella Chiesa del SS. Crocifisso, come già anticipato prima, è conservata una tela omonima settecentesca[1], differente, rispetto a quella del Museo d'Arte Sacra, nella posa in quanto rivolta di tre quarti verso sinistra e nei cherubini all'altezza del capo, mentre trova uniformità nell'incrocio delle mani, nello sguardo rivolto verso l'alto. Spicca il contrasto fra luci ed ombre, difatti un bagliore colpisce e avvolge il volto, le mani e i diversi particolari presenti come le pieghe del maphorion, anche se lievemente inferiore dal punto di vista qualitativo rispetto al dipinto del Museo d'Arte Sacra, è ugualmente interessante e degna di approfondimento.

Entrambe le tele è possibile fare l'esempio con altri dipinti come l’Addolorata, sempre del Solimena, conservata a Bari presso la Pinacoteca Provinciale “Corrado Giaquinto”, opera realizzata fra il 1701 e il 1705. In questo dipinto la Vergine è rivolta verso sinistra. Non cambiano invece l’effetto cromatico, le mani incrociate, particolari già visti nella tela di Dresda, oppure in quella conservata a Manduria presso la Chiesa di Sant'Antonio. L’opera ha diverse affinità con la tela di Mesagne: oltre alla posa, alla posizione ed all’incrocio delle mani, anche il colore delle vesti è lo stesso ed anche il modo con cui è impostato il velo che copre il capo della Vergine.

Questo discorso tira in ballo i modelli dei grandi maestri napoletani, i quali hanno ispirato i pittori attivi nelle province dell'allora Regno di Napoli e nel nostro caso nella provincia di Terra d’Otranto.

È opportuno dunque illustrare, anche se in maniera breve, il panorama pittorico del XVIII secolo a Napoli e in Terra d’Otranto. Nel Settecento la città partenopea è il centro culturale per eccellenza del Sud Italia e fra i più importanti d'Europa. Figura chiave, in ambito pittorico, di questo periodo fu Francesco Solimena (1657-1747), “pilastro” della pittura barocca a Napoli. Capo di una fiorente bottega, vera “impresa” nel campo artistico, in cui si formarono diversi pittori alcuni dei quali divenuti celebri. Le opere del Solimena erano molto richieste dalla committenza, laica o religiosa, napoletana e no. Quando Solimena era troppo impegnato, subentravano gli allievi nel soddisfare le commissioni, soprattutto nelle province del Regno. Bernardo De Dominici, nelle sue “Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani”, del 1747, descrive Solimena con queste parole: «…egli ha col suo studio accoppiato quanto di più bello, e perfetto hanno raccolto con loro studiose fatiche i migliori Artefici di Pittura, così ne' grandi componimenti, che nella forza di un perfetto disegno, ed ottimo chiaroscuro; Accompagnando tutte queste preziosissime, e difficili parti, col suo bel colorito (…) rendendolo forse più bello con una nobil magia di bellissime tinte, che par ti renda quasi impossibile a superarlo; come in questa sua vita nelle opere egregie da lui dipinte.»[2]. All'interno della bottega, lo stesso “Abate Ciccio”, nome con cui veniva chiamato Francesco Solimena, impartiva le lezioni agli allievi. Teneva informati i propri apprendisti sulle varie esperienze pittoriche passate e presenti. Le opere del Solimena divennero ben presto un modello da seguire, da reinterpretare, nacque così il “solimenismo”. Stile pittorico, che si diffuse in larga scala in tutto il corso del Settecento in due modi: grazie alla circolazione delle opere dello stesso maestro, e grazie all'operato degli allievi, chiamati a lavorare in cantieri della provincia del Regno.

 

[1]              M. GUASTELLA, Inventario della pittura sacra di età moderna nelle Chiese di Mesagne, Neografica, Latiano 1993, p. 38

[2]              B. DE DOMINICI, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani, 1742, rist. anast., Forni Editore, Bologna 1979, p. 579

 

 

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