150 ANNI DOPO LA MORTE DI ALESSANDRO MANZONI, STORIA DELLA COLONNA INFAME

Enzo Poci, Società di Storia Patria per la Puglia Giugno 20, 2023 1801

150 ANNI DOPO LA MORTE DI ALESSANDRO MANZONI
La Storia della Colonna Infame

Una riflessione odierna

 

        

Nei giorni scorsi ero seduto in un mezzo pubblico milanese che percorreva via Torino in direzione di Porta Genova, quando la mia attenzione fu attirata da una targa che indica via Giangiacomo Mora, una via che dal Corso di Porta Ticinese conduce all’incrocio di corso Genova e di via Cesare Correnti. Sceso dal tram, ho percorso a piedi quella breve via che mi ha portato in corso di Porta Ticinese, nei pressi delle Colonne di San Lorenzo.

Ad angolo tra via Mora e corso di Porta Ticinese rimane appunto uno spazio dove vi era la casa poi demolita di Giangiacomo Mora, il barbiere processato dopo tortura ed ucciso insieme con Guglielmo Piazza, imputati del crimine “de peste manufacta” durante l’epidemia del 1630, come si narra ne I Promessi Sposi.Un_aspetto_di_Milano_durante_la_peste_del_1630._Corso_di_porta_Orientale._Oggi_corso_Venezia.jpg

Oggi quel luogo conserva l’incavo metallico, vestigia di una colonna già presente, associato ad una nuova epigrafe che recita come segue:

QUI SORGEVA UN TEMPO LA CASA DI GIAN GIACOMO MORA INGIUSTAMENTE TORTURATO E CONDANNATO A MORTE COME UNTORE DURANTE LA PESTILENZA DEL 1630 È UN SOLLIEVO IL PENSARE CHE SE NON SEPPERO QUELLO CHE FACEVANO, FU PER NON VOLERLO SAPERE, FU PER QUELL’IGNORANZA CHE L’UOMO ASSUME E PERDE A SUO PIACERE, E NON È UNA SCUSA MA UNA COLPA Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame”.20230531_203951.jpg20230531_203820.jpg

«Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quegli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano a loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il pensare che se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì essere forzatamente vittime, ma non autori» Alessandro Manzoni commenta mestamente nella sua densa Storia della colonna infame.[1]


Egli nacque a Milano il 7 marzo del 1785 da Pietro Manzoni, un ricco e anziano proprietario lecchese e la bella Giulia Beccaria, figlia dell’illustre filosofo, autore della famosa pubblicazione Dei delitti e delle pene. Qualche anno dopo, nel 1792, Giulia e Pietro Manzoni si separarono. Alessandro trascorse l’adolescenza in vari collegi a Merate, Lugano e poi a Milano fino al 1801.[2] Dal 1801 al 1804 visse a Milano presso la casa paterna, e per alcuni mesi a Venezia. La madre Giulia, dopo la separazione del marito era andata a vivere a Parigi con il conte Carlo Imbonati, intellettuale e allievo del Parini. Il 15 marzo 1805 morì il conte, e il Manzoni si trasferì a Parigi presso la madre e scrisse il carme In Morte di Carlo Imbonati. Nel 1807 ritornò a Milano e incontrò la futura moglie Enrichetta Blondel, svizzera di origine calvinista che sposò l’anno successivo.Nel giugno del 1808, tornò a Parigi. Nel febbraio del 1810 sposò Enrichetta con il rito cattolico. Da questo momento inizia per il Manzoni il ritorno alla fede cattolica.

Attraversò tutte le vicende politiche di quegli anni, comportandosi sempre con coerenza e dignità. Nel 1833 perse la moglie Enrichetta e con il passare degli anni vide venir meno tutti i suoi figli (nove), tranne Vittoria ed Enrico. Convolò a nuove nozze nel 1837 con Teresa Borri , vedova del conte Decio Stampa.

Il suo periodo creativo esordisce nel 1801 con il poemetto Del trionfo della libertà e termina il 1827, anno in cui la stesura finale dei Promessi Sposi vede la luce.

Nella considerazione generale, il poeta Manzoni non ha goduto della stessa fortuna del romanziere, se non per i versi di alcune odi mandate a memoria da parte di molte generazioni di alunni, ma sia il poeta, sia il romanziere sono parte importante nella storia della nostra cultura. Egli però negli ultimi anni della sua attività letteraria matura la ferma certezza della vacuità del romanzo storico e dichiara che la storia ci fa conoscere la verità da sola ed è inutile mescolarla con le favole del romanzo.

Ed ecco che nel 1842 completa l’operetta dedicata alla Storia della colonna infame, pagine dense di storia giudiziaria - la cui lettura o rilettura possono risultare più che mai attuali o intriganti in questi ultimi anni - le quali raccontano intimamente le vicende preprocessuali e le dettagliate fasi di avanzamento del famigerato processo celebrato contro alcuni cosiddetti untori nel tempo della peste milanese del 1630.

I due capi untori, Gian Giacomo Mora e Guagliemo Piazza, che oggi chiamiamo “imputati ideali”, furono torturati previamente e condannati a morte. In corso di Porta Ticinese la casa del Mora fu demolita ed una colonna fu eretta nel vuoto lasciato a ricordo perenne dell’accusa infamante e della condanna esemplare, ma, attraverso la ricostruzione accurata dei fatti e il vaglio degli atti processuali, l’autore dimostra l’innocenza dei due imputati, «vittime soltanto della superstizione, della collera popolare, della debolezza dei giudici e dei dirigenti». La persona singola, termina Romandini, «con le sue specifiche colpe e le sue responsabilità, rimane al centro dell’indagine manzoniana, la quale nei suoi momenti più felici, lungi dall’annegare gli avvenimenti in una anonima valutazione di forze politiche, economiche, sociali che li determinerebbero, porta in primo piano le singole coscienze, ne valuta le specifiche responsabilità, ne scandaglia incertezze, difetti ed errori»[3]

La Storia della colonna infame è divisa in sette capitoli ed è preceduta da una introduzione; tuttavia, l’operetta muove da quello che lo scrittore milanese racconta come una digressione nel capitolo trentadue dei Promessi Sposi.

«Il delirio delle unzioni» accresce e molti medici prestano fede. Non mancano le persone accorte che pensano ad un reale delirio collettivo, ma queste si guardano bene dal manifestare il loro pensiero per il timore del senso comune, poiché «nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico». I magistrati, sempre più smarriti e confusi, infliggono pene molto severe agli accusati.

L’autore ricostruisce con minuzia informata e rigorosa - e dopo ogni fase lo smantella con ironia feroce e con annotazioni edotte e perspicaci - il procedimento contro gli untori che si è svolto davanti al Senato di Milano nel mese di luglio del 1630.

Tutto nasce da una così chiamata notitia criminis: «la mattina del 21 giugno 1630... una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi per disgrazia ad una finestra... vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano... si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che luogo a luogo tirava con le mani dietro al muro». Alla donna venne in pensiero «se a caso fosse uno di quelli che à giorni passati, andavano ongendo le muraglie». Anche Ottavia Bono vide dalla sua finestra un uomo che mentre camminava toccava i muri delle case «et si vidde imbrattate le muraglie d’un certo ontume che pare grasso e tira al giallo». Caterina Rosa, iniziò a spargere la voce e si scoprì che l’uomo era un commissario della Sanità di nome Guglielmo Piazza, il quale fu arrestato con l’accusa di essere un untore ( Egli era un funzionario del Tribunale della Sanità che aveva il compito di vigilare sui monatti e di ispezionare i quartieri infetti. Guglielmo Piazza, cardatore di seta, era stato fatto commissario di Sanità il 26 maggio 1630).[4]

«È stato significato al Senato che hieri mattina furno onte con ontioni mortifere le mura et le porte delle case della Vedra de’ Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione. E con queste parole, già piene d’una deplorabile certezza, e passata senza correzioni dalla bocca del popolo in quella de’ magistrati, s’apre il processo»[5]. (Il capitano di giustizia era colui che per nomina regia amministrava la giustizia penale nello stato di Milano e tutelava l’ordine pubblico).

Interrogato e messo sotto la tortura di rito, a questi era promessa l’impunità in cambio dei nomi degli altri complici. Non reggendo il primo grado del supplizio, l’infelice confessò con sfoggio di molta fantasia di fare parte di un complotto insieme con molte altre persone, sottoposte al comando di Giovanni Padilla, un capitano di cavalleria, figlio del Castellano spagnolo di Milano, e di avere ricevuto i veleni dal barbiere Gian Giacomo Mora.

«Di tanti orrori fu cagione la debolezza... che dico? l’accanimento, la perfidia di coloro che, riguardando come una calamità, come una sconfitta, il non trovar colpevoli, tentarono quella debolezza con una promessa illegale e frodolenta».

«Bisogna alzar la voce (clamandum est) contro que’ giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti».[6]

I giudici “sentenziarono” velocemente Piazza e Mora, difesi da avvocati di ufficio, alla pena capitale, ma dalla lista dei condannati fu espunto il nome di Padilla, il quale, patrocinato da un ottimo avvocato, fu assolto. La casa di Gian Giacomo Mora, come è stato ricordato, fu demolita, in quanto «officina del delitto», come prescritto nella medesima sentenza di condanna emessa dal Senato milanese (per mai rialzarsi in futuro), e nel suo luogo fu apposta una epigrafe esplicativa e fu eretta a damnatio memoriae una colonna in granito con una palla sulla cima – chiamata infame - che sarebbe stata abbattuta solamente in una notte lontana del 1778.

«Ma la menzogna, l’abuso del potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si possono riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si possono riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né, per ispiegar gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più naturali e meno triste, che quella rabbia e quel timore»[7].

Manzoni esamina con puntualità i fatti e i documenti processuali difendendo gli accusati senza preoccuparsi del punto di vista giuridico della questione, ma con rigore morale e con acume e sensibilità psicologica, ed arriva alla conclusione che i giudici, se non fossero stati sviati da insane passioni ed istigati dal furore della folla strepitante, avrebbero evitato quelle sentenze ingiuste e scellerate.

L’intera vicenda era stata già l’argomento di trattazione nel 1777 da parte del celebre scrittore Pietro Verri nel suo opuscolo Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all’occasione delle unzioni alle quali si attribuì la peste che devastò Milano l’anno MDCXXX. L’autore perorava la genesi e la natura astrattamente storico-giuridica di quella triste pagina processuale per ottenere che la pratica della tortura fosse abolita nelle terre del vecchio ducato di Milano.

Manzoni mette bene a fuoco ed approfondisce lo sguardo sul particolare umano nella panoramica storica generale, nella quale individua e presenta i singoli attori, gli indifesi e i potenti, la coscienza, le debolezze e le paure dei primi contro le aberrazioni recondite e deontologiche dei secondi, per difendere una tesi alquanto discosta dalla prospettiva di stampo illuministica di Pietro Verri.

«Quel sospetto e quell’esasperazion medesima nascondo ugualmente all’occasion di mali che possono esser benissimo, e sono in effetto, qualche volta, cagionati da malizia umana; e il sospetto e l’esasperazione, quando non siano frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la triste virtù di far prendere per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni».[8]

La Colonna Infame appare, dunque, come un pretesto «eccezionalmente propizio per scrutare i cuori dei giudici secenteschi, degli spietati inquisitori, e di riscontro anche i cuori degli indiziati innocenti, dei ricattati e dei torturati».

Secondo Lanfranco Caretti, filologo ed italianista di fama illustre, Manzoni ci propone e ci fa rivivere un momento storico «stravolto della rabbia e dal timore popolare, ma soprattutto macchiato da fatti atroci dell’uomo contro l’uomo... la menzogna, l’abuso di potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, e soprattutto l’adoprar doppio peso e doppia misura a distinguere, con evidente stravolgimento d’ogni senso di giustizia, tra i miseri accusati (Piazza, Mora...), sottoposti alle sevizie più feroci e infine barbaramente giustiziati, e la persona d’importanza, cioè quel don Giovanni Gaetano Padilla cui fu risparmiata la tortura e concessa tempestiva difesa, e che andò finalmente liberato. Si prolunga, si allarga e si approfondisce dunque, nella Colonna Infame, la rappresentazione spietatamente critica della società del Seicento, già presente ne I Promessi Sposi»[9].

In ultima sintesi, la Storia della Colonna Infame, «opera spietata e precorritrice, prende alla gola quanti hanno sete di giustizia e riscoprono un’idea autenticamente civile della letteratura».[10]

L’introduzione alla Storia della Colonna infame si conclude con queste righe che annunciano una luce flebile, un riscatto fugace: «Ma un tal dispiacere porta con sé il suo vantaggio, accrescendo l’avversione e la diffidenza per quell’usanza antica, e non mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare, e, se ci si lascia passar quest’espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha dato alla testa»[11]

«Felici que’ giurati davanti a cui tali imputati comparvero (ché più d’una volta la moltitudine eseguì da sé la sua propria sentenza); felici que’ giurati, se entrarono nella lora sala ben persuasi che non sapevano ancor nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di quel rumori di fuori, se pensarono, non che essi erano il paese, come si dice spesso... con un traslato sinistro e crudele nei casi in cui il paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi; ma ch’erano uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o innocenti».[12]

Alessandro Manzoni, senatore del Regno d’Italia, si spense serenamente nella sua abitazione milanese il 22 maggio 1873, in seguito ad una caduta rovinosa subita alcuni giorni prima uscendo dalla vicina chiesa di San Fedele, dopo avere assistito alla celebrazione quotidiana della Santa Messa.

 

[1] -A. MANZONI, Storia della Colonna Infame, a cura di L. Caretti, Milano, Mursia, 1973, p. 25.

[2] -Ivi, p.12.

[3]- A. MANZONI, I Promessi Sposi, a cura di M. Romandini, Taranto, Mandese Editore, 1984, p.IX.

[4] - A. MANZONI, Storia della Colonna Infame, a cura di L. Caretti, cit. pp.29-30.

[5] - A. MANZONI, Storia della Colonna Infame, a cura di L. Caretti, cit. p.32.

[6] -Ivi, p.43.

[7]- Ivi. pp.23-24.

[8] -A. MANZONI, Storia della Colonna Infame, a cura di L. Caretti, cit. p. 33.

[9] - Ivi. p.11.

[10] - A. MANZONI, Storia della Colonna Infame, a cura di R. Negri, Marzorati, 1974.

[11] -- A. MANZONI, Storia della Colonna Infame, a cura di L. Caretti, cit. p.28.

[12] -Ivi, p.33.

 

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Ultima modifica il Martedì, 20 Giugno 2023 20:51