Lo scrittore del Nord che amò il Sud
Il brigante di Giuseppe Berto è un libro che oggi ricordano in pochi ma quando nel 1951 fu pubblicato, fu definito dal Time Magazine un “piccolo capolavoro”. È senza alcun dubbio uno dei due romanzi veramente marxisti della letteratura italiana (l’altro è Le terre del Sacramento di Jovine).
Biografia
Giuseppe Berto nacque a Mogliano Veneto il 27 dicembre del 1914 in una famiglia di un modesto negoziante (il padre Ernesto, ex maresciallo dei Carabinieri, gestiva insieme alla moglie, Nerina Peschiutta, un modesto negozio di cappelli ed ombrelli). Giuseppe, primo maschio di cinque figli, fu avviato con grandi sacrifici familiari agli studi liceali, dapprima presso il ginnasio nel Collegio salesiano Astori di Mogliano e successivamente presso il liceo Canova di Treviso dove conseguì, non senza fatica, la licenza liceale. Fu proprio lo scarso impegno di Giuseppe a scoraggiare il padre dal mantenerlo all’università. In precedenza, nel 1929, Giuseppe era divenuto Avanguardista, come tanti della sua generazione, e successivamente Giovane fascista. Senza aiuti familiari, Berto si arruolò nel Regio Esercito e fu inviato in Sicilia. Si iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova ma frequentò più i caffè e le sale biliardo che le lezioni universitarie. Entrò a far parte dei GUF (Gruppi universitari fascisti) e divenne capo manipolo del GIL (Gioventù Italiana del Littorio).
Nel 1935, partì volontario per la guerra contro l’Etiopia. Berto combattè in Africa da sottotenente per ben quattro anni in un reggimento di Ascari e per il suo eroismo in battaglia e dopo essere rimasto ferito ad un piede, fu insignito di due medaglie al valore militare (una d’argento e una di bronzo). Ritornò in patria nel 1939 e riprese gli studi universitari, laureandosi l’anno dopo nel 1940 in Storia dell’Arte. In seguito racconterà che fu agevolato molto dal fatto che agli esami universitari era solito presentarsi in divisa sulla quale spiccavano le due medaglie al valore.
Nel 1940 pubblicò in quattro puntate sul Gazzettino Sera di Venezia il racconto lungo La colonna Feletti, nel quale raccontava, da giornalista ma con spiccata vocazione narrativa, un episodio di guerra realmente accaduto in Africa orientale.
Nel frattempo, nel giugno del 1940, l’Italia era entrata in guerra a fianco della Germania e Berto fece domanda per partire volontario per il fronte. La domanda non fu accettata e Berto dovette insegnare dapprima Latino e Storia nell’Istituto Magistrale di Treviso e, l’anno dopo, Italiano e Storia nell’Istituto Tecnico per Geometri, sempre di Treviso. Convinto che non fosse portato per fare il mestiere di insegnante, nel 1942 si arruolò come ufficiale nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e fu inviato a combattere in Africa settentrionale; all’indomani del disastro di El Alamein, partecipò, arruolato nel VI Battaglione Camicie Nere, alla disastrosa ritirata dalla Cirenaica alla Tunisia. Queste drammatiche vicende saranno successivamente narrate da Berto nel suo libro-diario Guerra in camicia nera (Garzanti, 1955). Il 13 maggio del 1943, alla fine della campagna di Tunisia, più fortunato di tanti altri suoi connazionali, cadde prigioniero degli americani. Fu inviato negli USA insieme ad altri ufficiali italiani e, dopo diversi campi di prigionia, giunse nel campo di concentramento di Hereford, nel Texas. Berto si rifiutò di collaborare e subì non poche vessazioni. Fu allora che ebbe inizio la sua attività letteraria. Nel campo di prigionia era stata fondata una rivista intitolata Argomenti (una sola copia manoscritta che era letta a turno dai prigionieri italiani) e, dal momento che servivano collaboratori, Berto fu invitato a scrivere (era pur sempre un laureato in Lettere). Fu allora che Berto ebbe anche modo di leggere alcune opere di autori americani fino ad allora vietati in Italia (Steinbeck, Hemingway). Fino alla liberazione (1946) Berto scrisse alcuni racconti, dapprima brevi e poi sempre più lunghi ed impegnati; alcuni di questi racconti, portati a casa dalla prigionia, entreranno a far parte del successivo volume Un po’ di successo (Longanesi, 1963). Sono sempre del periodo della sua prigionia (per la precisione del 1944) i suoi primi due romanzi manoscritti, Le opere di Dio e La perduta gente; quest’ultimo sarà pubblicato da Longanesi agli inizi del 1947 con il titolo Il cielo è rosso (il titolo fu voluto da Leo Longanesi). Entrambi i romanzi sono incentrati sulle terribili vicende della seconda guerra mondiale e sulle tragiche conseguenze subite dalla povera gente; Il cielo è rosso, che ebbe un notevole successo di pubblico e di critica, narra la storia di un gruppo di giovani che, abbandonati al loro destino, cercano di sopravvivere e di restare umani nonostante le violenze e le tragedie della guerra. Nel 1950 Claudio Gora ne trarrà un film. Fu proprio con Gora che Berto cominciò a scrivere sceneggiature per il cinema.
Il romanzo piacque sia per i contenuti sia per lo stile narrativo dell’autore, diretto e semplice, in linea con la corrente culturale del neorealismo, allora dominante in letteratura e nel cinema. Berto affermerà, anni dopo, che la sua desione al neorealismo non fu del tutto consapevole.
Sull’onda del successo de Il cielo è rosso, il nostro autore compose il suo terzo romanzo, Il brigante, pubblicato da Einaudi nel 1951; l’opera conclude la fase neorealista della sua produzione; anche da questo romanzo fu tratto un film.
Le opere di Dio e Il brigante non ottennero lo stesso successo de Il cielo è rosso. Negli anni successivi e fino al 1963, lo scrittore entrò in una profonda crisi, sia psicologica che intellettuale e la sua attività letteraria ne risentì negativamente, soprattutto dopo la pubblicazione del diario Guerra in camicia nera (1955) che non ebbe il successo sperato anche se è importante per la testimonianza del lento e doloroso passaggio dello scrittore dal neorealismo ad uno psicologismo particolare perché a sfondo umorista. Alla crisi contribuì anche la morte del padre che gettò lo scrittore in uno stato di “nevrosi da angoscia”, dalla quale riuscì a liberarsi come uomo e solo in parte dopo alcuni anni grazie ad una terapia psicoanalitica.
Durante il periodo di crisi, circa un decennio, scrisse solo sceneggiature per il cinema e racconti, pubblicati nella raccolta Un po’ di successo (1963).
Il superamento definitivo della crisi come scrittore e narratore avvenne solo nel 1964 con la pubblicazione del romanzo Il male oscuro, ricostruzione mediata in forma autobiografica degli anni della malattia e delle cure a cui si era sottoposto per superarla. Il romanzo (nel 1989 Monicelli ne trarrà un film di successo) fu un caso letterario unico in Italia perché premiato in una settimana con i due premi letterari Viareggio e Campiello; questo successo spronò lo scrittore che l’anno dopo pubblicò un nuovo romanzo, un misto di fantascienza e umorismo, La fantarca; nel 1966 pubblicò un altro romanzo, La cosa buffa.
Poco prima della crisi, Berto si era trasferito a Roma, dove aveva conosciuto e poi sposato Manuela Perroni (morta nel 2020 all’età di 87 anni); dal matrimonio nacqe una figlia, Antonia (1954). Lo scrittore, chiamato affettuosamente Bepi dalla moglie, aveva nel frattempo acquistato un terreno a Capo Vaticano, sull’estrema punta della penisola calabra. Qui costruì il suo rifugio e qui volle vivere, con la famiglia e per gran parte del tempo appartato, lontano da accademie letterarie, circoli culturali e movimenti politici. Lavorò comunque come sceneggiatore e nel 1970 fu tra i collaboratori alla sceneggiatura di Anonimo veneziano di Enrico Maria Salerno. Altro suo romanzo di successo fu Oh, Serafina! (1973), vincitore del premio Bancarella e divenuto un film grazie ad Alberto Lattuada.
Malato e sofferente per un cancro, riuscì comunque a scrivere un ultimo libro, La gloria (pubblicato nel 1978) nel quale lo scrittore volle riabilitare la figura di Giuda Iscariota, giustificando il suo tradimento in quanto frutto della volontà divina.
Giuseppe Berto morì il 1° novembre 1978 a Roma e la sua salma fu tumulata nel cimitero di Ricadi, (Vibo Valentia).
Il brigante
Berto si considerava un anarchico, mentre i comunisti lo consideravano un fascista e i fascisti lo ritenevano un traditore; di sicuro non fu accomodante con la cultura egemone della Sinistra; fu sempre in aperta polemica con il mondo letterario e sempre vittima delle sue stesse nevrosi. Lo scrittore che in Italia incarna le difficoltà del “mestiere di scrivere” è sicuramente Giuseppe Berto che ha saputo raccontare con coraggio le nevrosi dell’uomo di oggi, in pratica le sue stesse nevrosi, in capolavori come Il male oscuro e La cosa buffa nonostante la “paura di scrivere” (tra virgolette le parole dello stesso Berto). Faccia attenzione il lettore al fatto che a questi romanzi lo scrittore c’è arrivato lungo un percorso di formazione, una “giusta evoluzione”; il lettore eviterà, così, di cadere nello stesso errore commesso da Emilio Cecchi che stroncò il terzo romanzo di Berto, Il brigante, non cogliendo il fatto che sotto “un impianto ingenuamente neorealistico”, quell’opera aveva una sua profonda “penetrazione psicologica e un linguaggio più curato e complesso” rispetto alle opere precedenti; insomma, le “premesse” per comprendere quella “giusta evoluzione” c’erano tutte in un “momento di trapasso” dovuto alla crisi del neorealismo. La sofferta e lunga macerazione dovuta al passaggio dal neorealismo, più subito che accettato, ad una più originale e personale fase espressiva psicologica ed umoristica fu una delle cause della nevrosi dello scrittore.
Il brigante narra la storia di uomo del Sud, Michele Rende che, senza colpa alcuna e a causa di una serie di eventi, diventa un bandito. Le vicende si svolgono nei primi anni Quaranta, al tempo della seconda guerra mondiale, a Santo Stefano Aprigliano, un paesino della Sila, in Calabria. La scelta di ambientare il romanzo in Calabria non è casuale anche se interessarsi di una terra dimenticata da Dio e dagli uomini fu una scelta originale per uno scrittore veneto che ne era lontano sia geograficamente che culturalmente. Uno scrittore veneto, un ex fascista, osava occuparsi di questione meridionale, ambientando la sua storia tra i paesini e i boschi della Sila, addirittura sconosciuti alla maggior parte degli italiani. Molti intellettuali di Sinistra, oggi diremmo radical chic, non la presero bene e Berto fu talvolta schernito e addirittura anche ghettizzato.
Per un romanzo neorealista, ambiente ed epoca hanno un’importanza notevole. La Calabria si prestava bene a causa del suo secolare immobilismo sociale, alle feudali condizioni di vita dei suoi abitanti, alla presenza di una massa di poveri contadini, di braccianti diseredati tenuti nell’ignoranza e sfruttati da secoli da una piccola, miope ed appartata classe di proprietari benestanti, gelosi padroni di antichi latifondi. A ben vedere erano le condizioni ideali per lo scoppio di violente ribellioni sociali, puntualmente accadute nei secoli e puntualmente soffocate nel sangue; così come era naturale che individui sensibili agli ideali di libertà e giustizia sociale fossero idolatrati dal popolo e malvisti dai ricchi proprietari e perseguitati dalle autorità che ne faceva dei briganti.
Michele Rende è descritto da Nino Savaglio, un ragazzo di tredici anni, testimone diretto dei fatti che rievoca a distanza di tempo nella finzione narrativa (l’io narrante).
Il romanzo comincia con l’arrivo, per una breve licenza, in paese di Michele. La sua spavalderia e la sicurezza ostentata attirano l’ammirazione di Nino e la diffidenza del resto dei paesani.
Un mattino viene trovato ucciso Natale Aprici, un ricco commerciante del luogo e amante della sorella di Michele, Lucia. Michele, che ha già avuto un alterco con Natale, è subito sospettato. Il giovane è innocente; dapprima si chiude in mutismo apprezzato dai suoi paesani che pensano sia un delitto d’onore; poi Michele sbaglia a discolparsi affermando che la notte dell’omicidio era a casa della “sua fidanzata Giulia Ricadi”. Era vero, ma la ragazza, per difendere la sua onorabilità, nega il fatto. Michele è condannato a tredici anni di carcere.
Passano alcuni mesi e in paese tutti, Nino compreso, hanno quasi dimenticato Michele che ricompare improvvisamente in paese, evaso dal carcere in seguito ad un bombardamento e ai disordini dell’8 settembre 1943. Michele è ritornato per vendicarsi di Giulia che lo ha tradito. Si presenta di notte a casa di Nino e con le minacce ottiene dal padre del ragazzo un fucile e con questo si rifugia nella stalla in attesa dell’alba; ma la mattina presto va via dal paese lasciando il fucile e desistendo dal suo intento vendicativo. A convincerlo è stata Miliella, la sorella di Nino, innamorata di Michele.
Il tempo passa e Michele è ormai un ricordo e, con il trascorrere del tempo, anche la guerra passa. Un giorno in paese ricompare Michele. Ha combattuto come partigiano al Nord, sulle montagne; ha un permesso del Comando Alleato per meriti di guerra e spera in un condono.
È un uomo diverso. La lotta partigiana lo ha formato; le idee di libertà e di giustizia sociale hanno fatto breccia nel suo animo. Lavora duramente e sa, da povero e oppresso lui stesso, che occorre combattere contro le ingiustizie sociali e i soprusi. Parla ai suoi simili, combatte contro la loro rassegnazione con l’intenzione di scuoterli dal giogo e dalle prepotenze dei proprietari terrieri. Guida, coraggioso e spavaldo com’è, i contadini ad occupare le terre incolte del latifondo. Ha successo. Michele diviene un paladino dei deboli e degli oppressi; è però inviso ai padroni, ai ricchi latifondisti che non si erano preoccupati di Michele omicida ma reputavano pericoloso Michele agitatore sociale e politico. Ecco allora il pretesto per toglierselo di torno: Michele deve ancora scontare la sua condanna per omicidio. È nuovamente arrestato e i contadini, senza guida, si disperdono. La notte stessa dell’arresto Michele fugge dalla caserma dei Carabinieri e si dà alla macchia.
L’uomo che aveva sognato per i poveri dei paesini silani “un giusto lavoro e un giusto compenso”, già vittima di un errore giudiziario, è ora un evaso, un fuorilegge, un brigante e tale sarà il suo comportamento da quel momento in poi. Vive sui monti della Sila braccato dai Carabinieri. È raggiunto da Miliella che lo ama e non vuole abbandonare il suo uomo pur sapendo di lasciare nel dolore la sua famiglia che, sospettata di complicità da tutti, è emarginata.
Michele sposa segretamente Miliella ed è sul punto di emigrare per rifarsi una vita lontano dall’Italia ma la situazione precipita in seguito alla delazione di un suo compagno che, nel tentativo di assassinarlo, uccide la povera Miliella che è incinta. Michele, pazzo di dolore, pensa solo a vendicarsi e lo fa con sanguinaria lucidità e spietata crudeltà. Comprende, pur nella follia del momento, che nel mondo non c’è più posto per lui e si fa ammazzare dai Carabinieri in uno scontro a fuoco.
I dieci capitoli del romanzo seguono i tempi reali in un crescendo drammatico ma sempre ordinato e chiaro; il testo è scritto in un italiano semplice, scarno ma fluido, una delle caratteristiche migliori di Berto. Il romanzo è chiaramente politico ed è ispirato ad una storia realmente accaduta; lo stesso Berto, nella seconda edizione dell’opera (1974), spiega che il romanzo ha dentro le idee di un socialismo “elementare, utopico, scarso ma in compenso entusiastico e pieno di certezze” che molti intellettuali italiani abbracciarono negli anni del neorealismo e al quale non pochi “erano pervenuti, senza grossi traumi, direttamente dal fascismo, il quale certe sue tendenze socialiste, non si capisce bene come, era riuscito a tenerle in vita nonostante tutto”. Berto era pessimista ed era convinto che l’uomo, pur onesto ed in buona fede, sarà sempre travolto da un destino malvagio e che la pur necessaria lotta della povera gente per un futuro migliore sarà sempre alquanto incerta, se non di difficile successo. Nononostante ciò, mai venne meno al nostro scrittore una profonda e convinta vicinanza, una misericordia partecipata per la sofferenza degli umili e delle vittime innocenti di guerre, soprusi, miseria, pregiudizi.
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